sabato 13 dicembre 2014

Lavoratori come farfalle




Giorgio Cremaschi, Lavoratori come farfalle. La resa del più forte sindacato d'Europa, Jaca Book, Milano, 2014.

Cremaschi, figura storica della FIOM e della sinistra sindacale, ripercorre in questo saggio la parabola del sindacato unitario ed in particolare della CGIL dagli anni Sessanta ai giorni nostri. E' un libro che esprime un giudizio amaro: il sottotitolo infatti parla di resa del sindacato e va letto con attenzione perché si tratta del giudizio espresso da uno dei suoi protagonisti. L'autore descrive il percorso imboccato dagli anni Ottanta ai giorni nostri che ha portato allo snaturamento del ruolo del sindacato. Detto semplicemente il sindacato ha smesso di chiedere e se smette di farlo perde la sua ragion d'essere. Riprendo un breve paragrafo che reputo illuminante:

Il sindacalismo passivo non chiede, aspetta timoroso. Non chiedere se non vuoi che ti sia chiesto. Il sindacato della passività propone, fa convegni, commenta, ma non chiede. La richiesta, quell'atto semplice e controllabile che in quanto tale già delinea e chiarisce le ragioni del conflitto, non si fa più. Troppo rischioso. Il sistema non tollera richieste. Oliver Twist, il piccolo protagonista dell'opera omonima di Dickens, a un certo punto delle sue disavventure nell'Inghilterra capitalistica dell'800 capita in un asilo caritatevole per fanciulli poveri e soli. Alla refezione viene consegnata una ciotola di minestra che non sfama lui e tutti gli altri ragazzi. Allora domanda: ne vorrei un altro po'. Cosaaaa? Urlano scandalizzati tutti i benefattori. Guai a chiedere. Il sindacato nasce per chiedere e diventa sempre più inutile quando non rivendica più. Oggi nessuno saprebbe dire cosa chiedono, in concreto, non con fumosi discorsi, CGIL CISL UIL. Le richieste e le piattaforme le stilano e le presentano le imprese, le banche, i governi, l'Europa. Sono loro che rivendicano e praticano il diritto a presentare richieste al lavoro. Richieste che hanno tutte lo stesso scopo: che si lavori di più pagati il meno possibile.“

La perdita di funzione del sindacato è andata di pari passo con la precarizzazione del lavoro e l'esplosione della disoccupazione e sotto occupazione che Cremaschi sintetizza nella efficace metafora del titolo:

Da lavoratore flessibile a risorsa, da risorsa a esubero. Il ciclo vitale del lavoratore subisce le stesse mutazioni della vita degli insetti, si passa in stadi diversi e sempre più spesso quello che si presenta come il più bello è quello che dura di meno. I lavoratori come farfalle”

Ho letto d'un fiato questo breve e lucido testo e ne condivido in larghissima parte l'analisi ed il giudizio. Credo che sia uno altro strumento utile alla ricostruzione di un pensiero critico  contro l'ideologia liberista dominante.



martedì 19 agosto 2014

L'Angelo della Storia (3). Bruno Arpaia e Walter Benjamin.





Working Class secolo XIX - XX - XXI



Sempre a proposito del concetto di storia di Walter Benjamin vorrei consigliare la lettura dei romanzi di Bruno Arpaia che ha subito senza alcun dubbio il fascino delle teorie del filosofo tedesco. Mi riferisco in particolar modo a tre romanzi che ho letto e riletto e che – nel mio piccolo – ho cercato di diffondere. I primi due sono Tempo perso (Marco Tropea 1997, poi Guanda 2003) e L’angelo della storia (Guanda 2001): le vicende del protagonista dei due romanzi – il giovane rivoluzionario Laureano - si svolgono rispettivamente durante la rivoluzione delle Asturie del 1934 e durante la guerra civile spagnola. In quest’ultimo Laureano incontrerà a Port Bou Walter Benjamin proprio alla vigilia della sua tragica fine.

L'altro suo libro che ho molto amato parla della nostra generazione ed il titolo è un altro manifesto di adesione al pensiero di Benjamin: Il passato davanti a noi (Guanda 2006).


  



mercoledì 13 agosto 2014

L'Angelo della Storia (2). David Bidussa e Walter Benjamin.





Working Class secolo XIX - XX - XXI


A proposito della IX Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin, un articolo di David Bidussa.

Il mio interesse per l’Angelo della Storia di Walter Benjamin non è recente, sistemando le carte ho recuperato un articolo di David Bidussa pubblicato mercoledì 27 agosto 2003 da il Manifesto che avevo conservato e che ora ripropongo.


Walter Benjamin e il suo angelo. Uno sguardo all’indietro che non si presenta solo come nostalgia o ispirazione di un futuro possibile. Ripensare il nostro rapporto con la storia vuol dire anche riconsiderare, nel presente, quelle possibilità che nel passato sono state interrotte. Impossessarsene, trasformarle in atto politico. Le «Tesi di filosofia della storia» sono state pubblicate nel 1942, ma l’angelo di Benjamin continua a guardare indietro perché il passato non è passato e i suoi orrori possono nuovamente ripresentarsi.

David Bidussa: Uno sguardo senza nostalgia.

La IX delle Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin (quella in cui egli accenna alla figura dell'angelo della storia e al suo guardare «indietro») è forse il luogo letterario e metaforico più visitato dalla critica e anche il testo che simbolicamente ha segnato la «scoperta» di Benjamin negli ultimi trent'anni.
Pubblicate per la prima volta nel 1942, solo a metà degli anni '70 le Tesi iniziano ad essere valutate come un testo normativo e non più solo «oscuro» o «intrigante». Sono Giulio Schiavoni, Fabrizio Desideri Franco Bella e Enzo Rutigliano (rispettivamente: Walter Benjamin. Sopravvivere alla cultura, Sellerio; Walter Benjamin il tempo e le forme, Editori riuniti; Il silenzio e le parole, Feltrinelli; Lo sguardo dell'angelo, Dedalo) ad aprire una nuova stagione della critica e a fare delle Tesi un testo esemplare del legame inquieto tra individuo e storia. Un tema su cui, da allora, molti sono tornati proprio riflettendo sulla figura dell'angelo, da Massimo Cacciari (L'angelo necessario, Adelphi) a Stéphane Moses (La storia e il suo angelo, Anabasi) a Michel Loewy (Redenzione e utopia, Bollati Boringhieri).
A monte di quel cambio di registro si colloca la crisi dello storicismo, la fine dell'idea che la storia sia uno «sgomitolamento lineare», la percezione nella sinistra che il materialismo storico non sia solo una filosofia della certezza proiettata verso l'avvenire.
Tuttavia anche così, la pregnanza delle sollecitazioni proposte nelle Tesi resta vaga, sospesa tra una metafora accattivante, in cui la crisi celebra se stessa come nuova metafisica della storia, e il rischio di una riscrittura complessiva di una filosofia della storia che per quanto critica alla fine fonda solo la retorica della sua enunciazione, ma si priva di una qualsiasi ipotesi di lettura critica.
Al centro di quelle pagine non risiede solo la Critica allo storicismo, ma anche l'analisi critica del ruolo dello storico e la confutazione di quel suo presunto oggettivismo indotto dall'uso acritico delle fonti e dei documenti a cui troppo spesso surrettiziamente si ritiene di riscrivere oggettivamente la storia, ovvero di scrivere la storia com' «è andata davvero». Perché l'angelo della storia guarda indietro?
Proviamo allora a riprendere in mano il testo della tesi IX e a sondarlo da un differente angolo prospettico (riprendo il testo da Walter Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di Gianfranco Bonola e Michele Banchetti, Einaudi 1997, che costituisce l'edizione critica più articolata e documentata del testo delle Tesi e da cui riprenderò più avanti anche le citazioni dai materiali preparatori per la loro stesura).
«C'è un quadro di Klee - scrive Benjamin – che si chiama Angelus novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi di qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L'angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un'unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi: destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l'angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che chiamiamo progresso, è questa bufera.»
Prevalentemente l'attenzione è stata rivolta al quadro di Klee, ai temi di carattere messianico o mistico o cabalistico, al rapporto tra visione messianica della redenzione e dimensione utopica della storia, alla visione antistoricistica della storia. Al centro si colloca l'immagine complessiva dell'angelo, l'accumulo delle macerie ai suoi piedi, la bufera, la visione della catastrofe. Tutti aspetti che in qualche modo hanno fatto convergere la riflessione di Benjamin con quella di Scholem, una riflessione che ha un tema comune e punti di divergenza.
li tema è la conciliazione tra attesa ed evento, tra investimento sul farsi della storia e delusione del suo accadere. Diversamente: tra risorse interiori e fattualità storica.
Una lettura della e sulla storia che entrambi riversano sulla storia e sul vissuto ebraico e che allude (al di là dell'esperienza ebraica nella storia) a una possibile interpretazione rinnovata del «vissuto mistico» e del vissuto utopico.
Per Scholem il problema è la possibilità che la trasgressione renda possibile in una condizione di catastrofe la redenzione e dunque l'inaugurazione di una qualche ipotesi messianica. Per Scholem guardare indietro significa cogliere il nesso tra catastrofe e redenzione e dunque permettere l'individuazione del principio di catastrofe come luogo generativo di una nuova identità (è questo in breve il nucleo fondativo di tutta la sua ricerca sul nichilismo religioso che egli disegna nel primo saggio dedicato a questo tema che costituisce il primo nucleo del Sabbatay Sevi, Einaudi, l'opera di una vita).
Per Benjamin, l'ipotesi della redenzione non produce automatismi o possibilità ché si originano dalla catastrofe ma nasce nella possibilità di guardare al presente attraverso le risorse sconfitte o bloccate da un passato che si propone come strumento, di replica. Il futuro non è dato, non è lineare né è sviluppo progressivo.
Lo sguardo indietro dell'angelo, così, richiama non solo il principio della catastrofe come macchina generativa, ma è proprio la dimensione della catastrofe ad avere altro valore e altro significato nell'ambito della sua riflessione.
L'angelo della storia si potrebbe dire è obbligatoriamente rivolto al passato, proprio perché per fondare futuro è necessario impossessarsi del passato. E' un dato meccanico ed entro certi aspetti anche scontato.
E tuttavia in questo volgersi indietro non risiede una domanda di sapere. Si guarda al passato - e dunque indietro - per impossessarsi del passato. E occorre possedere il passato per usarlo. «Lo storico è un profeta rivolto all'indietro», aveva scritto Benjamin nel 1917 (Walter Benjamin, Metafisica della gioventù, Einaudi).
E riprendendo le stesse parole nelle note preparatorie alle Tesi, prosegue: «Egli volta le spalle al proprio tempo; il suo sguardo di veggente si accende davanti alle vette degli eventi precedenti che svaniscono nel crepuscolo del passato. E' a questo sguardo di veggente che il proprio tempo è più chiaramente presente di quanto non lo sia ai contemporanei che «tengono» il passo con lui».
Una notazione che per certi aspetti allude a quanto Lucien Febvre aveva detto nel corso della sua lezione inaugurale al College de France («L'uomo non si ricorda del passato: lo ricostruisce. (...) Ma muove dal presente, e solo attraverso il presente, sempre, conosce, interpreta il passato» (L. Febvre, Problemi di metodo storico, Einaudi).
Ma questo primo livello apre verso una diversa lettura. Rievocando una sua radicata convinzione Benjamin scrive, a metà degli anni '30, nelle sue note su Parigi: «L'elemento distruttivo o critico della storiografia si esplica nello scardinare la continuità storica. La storiografia autentica non sceglie il suo oggetto a man leggera. Non lo afferra, lo estrae a forza dal decorso storico. Questo elemento distruttivo nella storiografia va concepito come reazione a una costellazione di pericoli che minacciano tanto il contenuto della tradizione quanto il suo destinatario. Contro questa costellazione di pericoli muove la storiografia: sta ad essa dar prova della sua presenza di spirito. In questa costellazione di pericoli l'immagine dialettica guizza fulmineamente. Tale immagine è identica all'oggetto storico; essa giustifica lo scardinamento del continuum». (Walter Benjamin, Parigi capitale del XIX secolo, Einaudi).
Lo sguardo indietro dell'angelo non si presenta solo come «nostalgia» o come ispirazione per un possibile futuro diverso - per un futuro anteriore -, ma come segno di un diverso modo di concepire la storia. Al centro del rapporto con la storia non sta un dato gnoseologico (ovvero «conoscere la storia»), ma connettere al presente le possibilità interrotte nel passato e riammetterle come strumenti per un futuro possibile. In questa seconda ipotesi conoscere la storia è «impossessarsi del passato», ovvero saperlo tradurre in atto politico. In questo senso riscattarlo.
Nel linguaggio di Benjamin l'espressione «impossessarsi del passato», implica una doppia operazione. La prima è quella che essenzialmente è rivolta alla riscoperta di una dimensione «dimenticata», «nascosta» o comunque «sopita» del passato. La storia in questo senso è anche una «contro-storia».
Ma «impossessarsi del passato» implica saper cogliere ciò che in questo presente si rende immediato, necessario e anche scardinante del possibile recupero di «quel passato». Non ciò che del passato è utilizzabile nel presente come «antidoto», ma ciò che nel passato si propone come oppositivo a questo presente.
Negli appunti per la stesura delle Tesi scrive Benjamin: «Non è che il passato getti la sua luce sul presente o che il presente getti la sua luce sul passato: l'immagine è piuttosto ciò in cui il passato viene a convergere con il presente in una costellazione. L'immagine del passato che balena nell'adesso della sua conoscibilità - ovvero di un passato che non è morto - è, secondo le sue determinazioni ulteriori, un'immagine del ricordo. Assomiglia alle immagini del proprio passato che si presentano alla mente degli uomini nell'attimo del pericolo. Queste immagini, come si sa, vengono involontariamente. La storia, in senso rigoroso, è dunque un'immagine che viene dalla rammemorazione involontaria, un'immagine che s'impone improvvisamente al soggetto della storia nell'attimo del pericolo.»
Tuttavia nel processo di rammemorazione non sta tanto una dimensione salvifica del ricordo, quanto una possibile contromossa. La rammemorazione - e dunque la riemersione da una precedente condizione di oblio – non implica la riattivazione di un ricordo e dunque non richiama la funzione della memoria. Si fonda su un processo attivo, non rievocativo. La rammemorazione si accredita perciò come la fonte da cui proviene la storia.
Guardare indietro implica, così, ritrovare quelle circostanze che permettono di recuperare ciò che si è interrotto nella storia, e dunque di rimetterlo tra le cose che consentono un diverso sviluppo del presente e dunque una chance di diverso futuro.
«Marx - scrive Benjamin negli appunti per la stesura delle Tesi - dice che le rivoluzioni sono la locomotiva della storia universale. Ma forse le cose stanno in modo del tutto diverso. Forse le rivoluzioni sono il ricorso al freno d'emergenza da parte del genere umano in viaggio su questo treno». La rivoluzione, cosi, è contemporaneamente la rottura del continuum storico e la sua possibile inversione. In altre parole le rivoluzioni sono l'interruzione del processo lineare della storia, o meglio il non-momento della storia.
Ma questo significato non è proprio solo della «rivoluzione», ovvero del processo di rovesciamento di potere, evento straordinario che interviene sulla linearità temporale inaugurando un «nuovo tempo». Più generalmente esso allude a qualsiasi gesto - o a un insieme di atti -che renda impossibile la ripetizione e la prosecuzione nel tempo indefinito di un sistema dato di potere e di oppressione.
Aspetto che impone un diverso approccio -o almeno un approccio maggiormente articolato - intorno alla riflessione sui «giusti» (certamente più problematico di quanto non sia stato proposto da Todorov nel corso degli anni '90; per tutti si veda Tentazione del bene, tentazioni del male, Garzanti).
Si potrebbe osservare più generalmente come tutta la riflessione concernente i «giusti», ovvero la possibilità che in condizione di oppressione totalitaria si dia replica e risposta diversa da quella statuita e prevista dal sistema sia collocabile all'interno di questa riflessione. Un gesto che è reso possibile dal fatto di evocare e proporre un diverso modo di spiegare e fondare il presente.
In questo senso il concetto di «giusto» o di «banalità del bene» se colto come «sguardo indietro» dell'angelo della storia ha un valore non riducibile a quello etico o caritativo con cui di solito si è pronti ad accogliere quell'atto. In altre parole, quell'atto è tale in relazione all'effetto di «blocco del processo lineare», di pietra d'inciampo dentro il carattere lineare del farsi della storia che si accredita come l'alleato «naturale» degli oppressori.
Ma all'interno di questa vicenda non risiede solo la contingenza dell'atto o la sua imperscrutabilità. «L'omaggio di una cipollina», ovvero privarsi di un qualcosa di completamente superfluo, non è sufficiente perché possa prodursi un gesto altruistico, comunque rovesciato rispetto alla norma vigente. Lo sguardo indietro dell'angelo dunque suggerisce ancora una cosa diversa. Dice che solo dal ricordo dell'oppressione e delle umiliazioni vissute e provate nel passato, si può produrre una forza capace di invertire o rovesciare la logica imperativa del presente. In altre parole, l'angelo della storia guarda indietro - e si rivolge al passato - perché il passato non è passato, perché tutti gli orrori del passato che possiamo anche ritenere lontani e superati, comunque collocati dietro di noi, hanno sempre la possibilità dì ripresentarsi.
Lo sguardo indietro dell'angelo costituisce, allora, un possibile principio per una diversa dimensione della convinzione e della retorica politica. Nella lotta politica, la forza, la capacità persuasiva, sono state riconosciute nel mito politico, nella capacità di proiezione sul futuro e nella prefigurazione di scenari armonici di radiosi domani. Forse la pratica di quello sguardo indietro - per quanto spesso intesa come rifondazione del mito politico utopico - andrà colta come capacità operativa e riflessiva della memoria, ovvero come la possibilità che si mediti sul passato per evitare una sua ripetizione.
In questo conto con la storia, in questo «corpo a corpo» col passato, tuttavia, viene a decadere una funzione che tradizionalmente le grandi collettività nazionali e i gruppi comunitari hanno affidato alla storia come fissazione di un calendario civile e come narrazione della propria origine.
La funzione assegnata alla storia a partire dalla costruzione dei grandi sistemi nazionali è stata quella di fondare il criterio di identità. Ovvero ad essa è stato affidato il compito di definire l'essenza di sé. In breve la costruzione del kit simboli e gesti per rispondere alla domanda «Chi sono?» Riconsiderare il passato non in relazione a ciò che si è o in relazione a una metafisica dell'identità ma in funzione a ciò che si è fatto, implica scegliere la storia come luogo in cui non si aderisce a una formula, ma si rimedita su ciò che è accaduto e si agisce per un esito diverso non garantito da alcuna metafisica, né automatico.
Non c'è alcun futuro salvifico nella riflessione sulla storia e sul passato, ma solo la possibilità di inventare e- trovare nuove vie per non uscire nuovamente sconfitti. Lo sguardo al passato senza nostalgia alla fine allude a questa possibilità.

giovedì 5 giugno 2014

La fabbrica nella polvere

Commento ad alcune foto scattate allo stabilimento valdagnese della Manifattura Lane G. Marzotto & Figli nel dicembre 2013.

Il presente articolo è stato pubblicato (con qualche piccola modifica) nella pagina web di storiAmestre (www.storiamestre.it), associazione di cui mi onoro di far parte.

Se si arriva a Valdagno dal fondovalle e, all'ingresso del paese, si prende la tangenziale esterna che porta verso Recoaro, ad un certo punto dall'altra parte del fiume appare il grande storico stabilimento della Manifattura Lane Marzotto. Da un po' di tempo l'immagine è desolante. I moltissimi vetri rotti della facciata fronte strada dell'opificio riflettono una sensazione di disuso, di abbandono. A dire il vero, guardando l'ingresso dello stabilimento, la pensilina e la portineria mantengono ancora un decoro ed i fasti da Grand Hotel, ma si non vede più il fluire di migliaia di lavoratori come un tempo e solo una parte degli uffici e dei reparti è ancora utilizzato, il resto è vuoto.
Questa fabbrica che ha rappresentato – assieme alla galassia di Alessandro Rossi nella vicina Schio – il terzo polo della prima industrializzazione italiana è ora un relitto di archeologia industriale. Per quasi due secoli ha segnato i destini della popolazione della vallata, è stato al contempo dannazione e speranza per i molti lavoratori che lì dentro hanno trascorso la loro vita ed ora è lì, enorme parallelepipedo silente. Pochissimi gli addetti rimasti a lavorare nello stabilimento, poco più di cinquecento. La produzione laniera che fino al 1968 contava 5000 operai (numero già in forte flessione rispetto al dopoguerra) ora non è più qui. La dura ristrutturazione in atto in quel lontano 19 aprile 1968 aveva fatto scoppiare la rabbia operaia di una classe che si era sempre mostrata pronta a chinare il capo, ma che, sentendosi tradita, aveva reagito rompendo i vetri della fabbrica, scontrandosi duramente con la polizia ed abbattendo la statua del fondatore Gaetano Marzotto Senior per rivendicare il diritto ad una condizione di vita decente in fabbrica come fuori. Lo scontro di allora fu seguito da una lunga lotta che – per la prima volta dalla nascita del lanificio – non finì in una sconfitta per gli operai. Essi ottennero condizioni di lavoro più decenti e di essere espulsi dalla fabbrica senza un calcio nel culo. Perché la produzione tessile era già allora un settore maturo che subiva la concorrenza dei paesi emergenti, ma una diversa idea delle relazioni industriali e l'integrazione della produzione nel sistema moda italiano ha permesso una riduzione più dolce degli addetti e i Marzotto hanno anche sostenuto con aiuti finanziari le nuove iniziative industriali che nascevano nel territorio per dare nuove opportunità alle nuove generazioni e scrollarsi il fardello della company town che avevano generato. Un defilarsi lento che – con i diktat della globalizzazione – subisce un'accelerazione; la produzione abbandona Valdagno e gli altri stabilimenti in Italia per essere svolta nelle fabbriche della Lituania, della Romania e della Repubblica Ceca post comuniste o dall'altro lato del mediterraneo. Per avere un'idea in numeri dell'esodo prendiamo i dati indicati nell'ultimo bilancio disponibile del Gruppo Marzotto (31 dicembre 2012): 3.479 addetti di cui 1350 in Italia, 998 in Repubblica Ceca, 380 in Lituania, 150 in Romania, 574 in Tunisia; di primo acchito l'azienda sembrerebbe avere ancora una forte base in Italia, ma la pagina web del gruppo parla di 11 stabilimenti in Italia e 5 siti produttivi all'estero, ecco quindi che il peso della produzione in Italia sembra diluito in molti stabilimenti con poche decine di addetti. Le relazioni di bilancio danno conto inoltre di piani di chiusura di alcuni degli stabilimenti italiani: la definitiva chiusura della divisione tessuti di Sondrio (14 addetti), la chiusura degli stabilimenti di Villa d'Almé (Bergamo) e di Fossalta di Portogruaro (94 addetti), il licenziamento di 51 addetti della società del gruppo Ratti Spa, 7 licenziamenti nella Collezione Grandi Firme e la chiusura dello stabilimento di filatura pettinata a Piovene Rocchette (121 addetti). La chiusura di Piovene mi ha visto testimone nei primi mesi dell'anno scorso di una singolare e toccante dimostrazione di protesta da parte dei lavoratori licenziati: essi avevano crocifisso le proprie tute di lavoro alle inferriate della fabbrica, l'immagine evocava le vittime di un massacro esposte a monito della popolazione.
La nota di bilancio parla anche di un contratto di flessibilità raggiunto con le organizzazioni sindacali del GMF (Gaetano Marzotto & Figli) di Valdagno che riguarda 221 addetti, non si capisce se questo è il numero totale degli addetti valdagnesi o se sono quelli interessati alla flessibilità.
I vincoli con la comunità si sono allentati, l'azienda è sempre più internazionale ed anche la società è cambiata: nell'era del pensiero unico liberista nessuno osa più sognare una società più giusta, né reclamare il diritto ad una vita dignitosa, l'unico dogma è la libera circolazione dei capitali e la riaffermazione che il lavoro non deve essere pagato o pagato molto poco, pochissimo. La velocità di spostamento delle produzioni ha messo a disposizione un enorme esercito di riserva di affamati. Sarebbe interessante verificare con le organizzazioni sindacali se e quali sono le relazioni industriali attualmente esistenti con il gruppo; quali sono le condizioni di lavoro in Tunisia, in Lituania, in Romania e in Cechia, se esistono là organizzazioni sindacali e fermenti operai e, soprattutto, se esiste un coordinamento fra i sindacati dei vari paesi in cui sono ubicate le fabbriche della Marzotto. Ho fatto un tentativo di contattare la responsabile dei tessili vicentina della CGIL, ma non ci sono riuscito al primo colpo e non ho insistito, magari in futuro sarà l'occasione per tornare in argomento. Non so effettivamente cosa stia succedendo in quelle fabbriche, e quindi mi limito ad alcune riflessioni di carattere generale che, credo, accomunano tutte le produzioni che sono state delocalizzate. Nei paesi dell'ex blocco sovietico le organizzazioni sindacali devono scontare il peso di un fardello ideologico che, in nome del movimento operaio, aveva per decenni imbrigliato e represso le rivendicazioni dei lavoratori. Il vuoto lasciato dal crollo dell'Urss è stato riempito dal pensiero unico liberista che ha lasciato poco spazio ad una azione collettiva nelle coscienze dei lavoratori.
C'è inoltre un problema di tempi. Se da un lato, la costruzione della fiducia nell'azione collettiva fra i lavoratori abbisogna di un lento lavoro organizzativo che si sedimenta nel vissuto di una infinità di torti e soprusi piccoli e grandi fino a confluire nel sentimento di solidarietà e di ribellione da parte di soggetti che condividono quotidianamente la medesima condizione di sfruttamento (quella che un tempo si definiva coscienza di classe), dall'altro lato la globalizzazione sta rendendo più veloce lo spostamento delle fabbriche rispetto alla capacità di organizzazione dei lavoratori. E' questa divaricazione dei tempi che rende più debole la resistenza dei lavoratori ai ricatti padronali. Spesso le cronache ci raccontano di fabbriche svanite durante le ferie d'agosto, gli impianti trasferiti quasi clandestinamente, lasciando i capannoni vuoti ed operai smarriti davanti ai cancelli. Credo che la percezione – conscia o inconscia – che accomuna sia i lavoratori derubati che quelli che li rimpiazzeranno nelle fabbriche ricostituite nei paesi di destino è di essere parte di un enorme esercito di riserva che li condanna ad una nuova servitù. Come é potuto succedere? La mia idea è che il duplice processo di robotizzazione e di globalizzazione hanno espropriato definitivamente il lavoratore del controllo sul processo produttivo e della coscienza di sé. Cercherò di spiegarmi meglio: nella fabbrica manifatturiera il prestatore d'opera controllava in qualche modo il processo grazie al suo saper fare e ciò gli dava una certa forza contrattuale; nella successiva fabbrica fordista l'operaio non specializzato assume coscienza dell'alienazione del lavoro; la catena di montaggio aumenta in modo esponenziale il divario fra lavoro e prodotto del lavoro e l'unico modo possibile per recuperare potere contrattuale in fabbrica è reagire a questa espropriazione convogliando la frustrazione e la rabbia che essa produce in nuove forme di lotta e di costante interruzione del processo produttivo. Nasce così uno scontro politico inedito volto a modificare i rapporti di forza all'interno della fabbrica che per un breve periodo risulta vincente. In entrambi i casi, la condizione essenziale che ha permesso l'affermarsi di una coscienza di classe è il luogo stesso: la fabbrica. La nascita e lo sviluppo del movimento operaio si fonda nel fatto di condividere quotidianamente, gomito a gomito, lavoro e condizioni di sfruttamento. E' proprio questo legame, questo tòpos, che il processo di robotizzazione/globalizzazione ha spezzato con la creazione di quella che definirei: la fabbrica virtuale.
La nuova fabbrica virtuale, prima di tutto, ha poco bisogno del saper fare, della presenza cioè di una manodopera specializzata nel territorio perché la robotizzazione del processo produttivo permette di controllarlo in remoto da migliaia di chilometri di distanza. Per la stessa ragione la produzione può rapidamente essere spostata da un luogo ad un altro spezzando così sul nascere le resistenze. Anche la parte più professionalizzata del lavoro si disperde in mille rivoli di consulenze, progetti ed altre collaborazione esterne alla fabbrica che hanno prodotto un tracollo dei prezzi del lavoro. Si potrebbe dire che si è imposta una pratica la cui valenza generale non impedisce che vi siano delle eccezioni: il lavoro – sia esso manuale o intellettuale – non deve essere pagato. Ecco allora che se nel 1968 fu la statua del fondatore a finire per qualche giorno nella polvere, dopo qualche decennio è la fabbrica intera ad essere coperta dalla polvere dell'abbandono e il segnale stradale di pericolo che un tempo avvertiva l'automobilista dell'uscita operai ora sembra minacciare un'uscita di quest'ultimi senza alcuna possibilità di rientro.









mercoledì 4 giugno 2014

España Mañana Será Republicana


Il movimento operaio è intimamente legato - sin dalle sue origini - al movimento repubblicano. Questo non vuol dire che non vi siano situazioni di coesistenza con istituzioni monarchiche, ma non vi è dubbio che, soprattutto in Spagna, il movimento operaio è repubblicano. La guerra civile vede la classe operaia schierata in difesa della repubblica legittimamente costituita e solo la durissima repressione della dittatura franchista piegherà per molti anni il movimento operaio. Lo spettro della tragedia degli anni Trenta dominerà gli anni della transizione verso la democrazia dopo la morte di Franco, il tentato golpe del 23-F ed il ruolo assunto da Juan Carlos I in difesa della legalità democratica sembrava aver relegato in una posizione marginale l'ideale repubblicano. 
L'annuncio dell'abdicazione di re Juan Carlos ha finalmente visto fiorire, dopo decenni, l'iniziativa massiccia della popolazione repubblicana spagnola che è scesa in piazza a chiedere un referendum per poter decidere fra monarchia o repubblica. Le città si sono riempite di persone e di bandiere repubblicane. Nei prossimi giorni completerò la pagina per il momento godiamoci le immagini e speriamo nella terza repubblica. QUE VIVA LA REPUBLICA!






domenica 16 febbraio 2014

Le lotte alla Pellizzari di Arzignano del 1964.


Il recupero di un archivio privato sull'argomento. 


Riporto qui integralmente la nota scritta il 17/10/2011 dopo aver provveduto al riordino ed alla digitalizzazione dell'archivio conservato da Cosimo Pascali sulle vicende del 1964 ad Arzignano. Ringrazio la figlia Antonella Pascali che mi ha affidato i documenti del padre per la loro digitalizzazione di cui conservo copia elettronica.

Note all'Archivio Cosimo Pascali “Lotta Pellizzari 1964”

Nell'autunno 1964 la Pellizzari annuncia la volontà di ridurre i propri organici e sospende 270 lavoratori. Si apre così una lunga vertenza fra l'azienda e le organizzazioni sindacali ed i lavoratori reagiscono alla decisione aziendale con azioni di protesta in difesa del proprio posto di lavoro. Ed è proprio nel corso di una di queste proteste che il 26/11/1964 i toni si accendono e ne seguono momenti di tensione tra i manifestanti e le forze dell'ordine. Quel giorno alcuni manifestanti decidono di protestare facendo un sit-in in mezzo alla strada, facendosi portar via di peso dalle forze dell'ordine. Si tratta di una forma di resistenza passiva che emula le modalità di protesta in uso in altri paesi (protesta all'inglese la chiamerà la stampa locale nelle cronache del processo che seguirà). Tuttavia, lo spostamento di uno di essi - Severino Roviaro, uno degli operai sospesi – non avviene senza danni e resteranno contusi sia il Roviaro che un carabiniere. Altre tensioni si accendono fra i lavoratori in sciopero e quei lavoratori che decidono di forzare il blocco ed entrare al lavoro, fra questi ultimi vi sono anche dei rappresentanti sindacali della Cisl e della Uil. Agli episodi del 26 novembre farà seguito una istruttoria ed un processo contro alcuni manifestanti che inizia con la sentenza di rinvio a giudizio del 18/12/1965 e si conclude con la sentenza del 6/12/1969 della Corte d'Appello di Venezia.
A fine agosto 1965 la Pellizzari conferma il licenziamento dei lavoratori sospesi l'anno precedente a partire dal 1 settembre 1965. Le lettere di licenziamento riguardano 220 operai e 124 impiegati e la vertenza si acuisce. Vi sono prese di posizione delle amministrazioni locali, interventi presso il governo, nuove iniziative di lotta.
La documentazione dell'Archivio Cosimo Pascali (di seguito ACP) prende avvio dalle proteste del 26/11/1964 alle quali il Pascali partecipa (egli è giornalaio, militante comunista e molto sensibile alle proteste dei licenziati, avendo egli stesso subito tale sorte nel passato. Oltretutto sua moglie è fra i lavoratori sospesi dalla Pellizzari di quel momento) e sarà processato con altri manifestanti per ingiurie e minacce alle forze dell'ordine e per violenza privata.

La documentazione dell'ACP è raccolta in una cartella recante il titolo: 'Lotta Pellizzari 1964 – Processo e documentazione licenziamenti Pellizzari'; essa si compone di 2 Buste (cartelle) riportanti i seguenti titoli manoscritti a matita:
  1. Lotta e documentazione licenziamenti Pellizzari;
  2. Processo fatti Pellizzari 26/11/64.

La busta n. 1 contiene volantini, manifesti, documenti scritti da sindacati, partiti politici e ritagli di giornale sulla vertenza arzignanese dell'autunno 1965, quando cioè la sospensione dei lavoratori dell'anno precedente si trasforma in licenziamenti veri e propri. C'è un solo articolo de Il Gazzettino del 27/11/1964 che dà conto dei tafferugli del giorno precedente, poi c'è un salto temporale all'estate/autunno dell'anno successivo.
La busta n. 2 contiene invece i documenti relativi al processo avviato dopo i fatti del 26/11/1964 contro Cosimo Pascali ed altri manifestanti, processo che si concluderà con una condanna in primo grado nella primavera del 1966, il ricorso in appello e la sentenza definitiva nel 1969. Essa contiene inoltre alcuni articoli tratti dai quotidiani sulla vicenda processuale, la memoria difensiva dattiloscritta da Cosimo Pascali e gli appunti manoscritti preparatori.
Tutti i documenti sono stati mantenuti nelle rispettive buste così come sono stati consegnati.
L'unico intervento è stato il riordino cronologico, nei limiti del possibile, dei documenti ed il riordino degli articoli da stampa a seconda della testata di pubblicazione, la schedatura e la scansione in formato elettronico (pdf) di tutti i documenti. Alcuni documenti sono presenti in più copie e soltanto uno (volantino Cgil del 25.01.1966 cfr. scheda n. 24 e n. 67) risulta presente in entrambe le buste.
Risultano così 89 schede (relative a 88 documenti, si veda la doppia schedatura del volantino 25.01.1966 sopra menzionato) di cui dalla n. 1 alla n. 58 relative alla Busta n. 1 e dalla n. 59 alla n. 89 alla Busta n. 2.

Questioni e problemi da risolvere sulla documentazione dell'Archivio Cosimo Pascali.
Busta n.1
Si compone di 25 volantini, 2 manifesti e 31 articoli tratti da quotidiani (di cui 13 da Il Gazzettino, 9 da l'Unità e 9 da Il Giornale di Vicenza). Di particolare interesse i volantini per la maggior parte a firma di organizzazioni sindacali, i restanti (9 Cgil, 5 Cisl, 3 Uil, 1 unitario, 4 Pci, 3 Psiup) ed i 2 manifesti (1 Pci e 1 Psi) perché si tratta di materiale “grigio” di difficile reperibilità.

Rimangono irrisolti alcuni problemi di datazione dei documenti, e precisamente:
  • il volantino del Pci di Arzignano dal titolo: Una nuova unità politica nella lotta contro il grande padronato della “Pellizzari”(cfr. Scheda n. 001), privo di data, molto probabilmente dell'autunno 1965 come la maggior parte dei documenti della Busta n. 1, tuttavia è l'unico documento che parla di 180 licenziamenti. E' possibile che sia stato redatto in una fase successiva (le trattative di quei mesi avevano fatto rientrare 40 dei 124 licenziamenti fra gli impiegati ed era stata ottenuta la proroga della Cassa Integrazione sino al 30/11/1965, quindi non è da escludere che alla fine i licenziamenti fossero stati ridotti), ma al momento si è preferito non indicare alcuna data;
  • il volantino della Segreteria Mandamentale della Cisl dal titolo: Precisazione della Cisl (cfr. scheda n. 009), privo di data è relativo alla presa di distanza del sindacato da iniziative di raccolta fondi a favore delle famiglie di Arzignano colpite dalle difficoltà economiche. Esso è di ancor più difficile collocazione temporale in mancanza di ulteriori documenti che facciano menzione di tali iniziative;
  • il manifesto del Gruppo Consigliare Socialista di Arzignano dal titolo: I socialisti e la Pellizzari. Bando alle chiacchere e alle facili promesse!! (cfr. Scheda n. 027) non è datato, tuttavia il testo ne permette una collocazione nei primissimi giorni di settembre 1965.

Alcuni articoli tratti dai quotidiani non riportano espressamente la fonte di provenienza:
a) per quanto concerne gli articoli tratti da Il Gazzettino descritti nelle schede n. 028, 029, 040 e quello tratto da Il Giornale di Vicenza della scheda n. 057, è stata effettuata la verifica presso l'emeroteca della Biblioteca Bertoliana di Vicenza che ne ha confermato fonte e data di pubblicazione;
b) gli articoli tratti da l'Unità descritti nelle schede n. 041, 042 e 043 pur mancando dell'espressa indicazione della fonte sono inequivocabilmente riconducibili all'organo di stampa del Pci per quanto emerge dal contenuto degli articoli;
c) la Lettera al Direttore, Possibilità di lavoro in una ditta tedesca (cfr. scheda n. 056) non indica né la fonte, né la data. I caratteri editoriali e la pagina (Cronaca di Arzignano) permettono di identificare la fonte ne Il Giornale di Vicenza e, nel retro del ritaglio di pagina, si riconosce un articolo sportivo con l'indicazione Valdagno 14 settembre, che fa supporre l'edizione del 15/09/1965, non riscontrato ad una prima verifica.
Busta n. 2
Si compone di 8 articoli tratti da quotidiani (di cui 3 dal Il Giornale di Vicenza, 3 da Il Gazzettino e 2 da l'Unità), 1 volantino, 4 documenti manoscritti di appunti preparatori della memoria difensiva e 1 documento dattiloscritto (promemoria), 2 atti giudiziari del 1951 relativi ad un processo a Cosimo Pascali per comizio non autorizzato ed un sentenza di condanna analoga per reati analoghi commessi nel 1949 da altri. Non hanno nessun nesso con la vicenda del 1964, ma probabilmente sono stati conservati nella stessa busta per analogia (si tratta di reati di opinione: comizio non autorizzato, ecc.). Infine 15 atti giudiziari relativi alla vicenda processuale.

In questa busta i problemi di datazione riguardano il Promemoria di Cosimo Pascali, ovvero la memoria difensiva elaborata per affrontare il processo ed i fogli manoscritti di appunti sulla base dei quali è stata scritta (cfr. schede nn. 070, 071, 072, 073, 074). Su tutti questi documenti è stata indicata genericamente la data dicembre 1964, più probabilmente essi sono stati scritti in un lasso di tempo più ampio che va dal dicembre 1964 al dicembre 1965 (quando il giudice istruttore decide il rinvio a giudizio degli imputati) e sarà conseguente alle dichiarazioni rilasciate dai vari attori del processo.

Infine, per l'articolo de l'Unità descritto nella scheda n. 065, manca l'espressa indicazione della data e della fonte, ma - in analogia con quanto indicato per gli articoli contenuti nella Busta n. 1 - dalla lettura del testo risulta facilmente identificabile sia il quotidiano di provenienza che la data di pubblicazione. L'articolo peraltro porta la stessa firma (g.l.m.) di un articolo pubblicato qualche giorno dopo (cfr. scheda n. 066) in cui è espressamente indicato il quotidiano di provenienza.

domenica 2 febbraio 2014

Grândola, vila morena. Que se lixe a Troika






Prima di guardare questo video consiglio di leggere il post precedente e di ascoltare la versione di Grandola cantata da Amalia Rodrigues. Questo video testimonia come i manifestanti di Lisbona dello sciopero generale del 3 marzo 2013 contro i tagli imposti dalla troika intonano l'inno che nell'ultimo quarto del secolo XX aveva dato il via alla liberazione del popolo portoghese dal giogo fascista durato per buona parte del secolo. La manifestazione è stata convocata con lo slogan Que se lixe a Troika! (Che a vada farsi fottere la Troika)

Unisco qui alcune immagini scattate qualche giorno prima a Oporto. La città si preparava allo sciopero generale con delle grandi scritte sulla carreggiata, un milione di persone manifesterà per le sue strade.



venerdì 31 gennaio 2014

Amália Rodrigues - Grândola, Vila Morena



Grândola vila morena è una canzone scritta da José Zeca Alfonso nel 1971 in omaggio alla Sociedade Musical Fraternidade Operária Grandolense (Grândola è una cittadina del sud del Portogallo), una delle prime cooperative ed associazioni operaie fortemente represse dal regime salazarista. La canzone che parla di un'associazione proibita fu presto proibita e causerà a José Alfonso molti arresti ed interrogatori da parte della polizia e della PIDE (polizia politica). Essa diverrà presto un simbolo di opposizione al regime, ma diventerà una delle canzoni simbolo quando la sua trasmissione alla mezzanotte del 25 aprile del 1974 dalle onde di Limite, il programma musicale in onda tutti le notti su Radio Renascença (emittente cattolica della capitale lusitana), sarà per i militari insorti il segnale convenuto di inizio della rivoluzione. L'abbattimento del più antico regime fascista in Europa prenderà il nome di Rivoluzione dei garofani, dal gesto di una venditrice di garofani che cominciò ad offrire ai militari i propri fiori e dalle immagini dei fucili in spalla con un garofano in canna in mezzo ad un popolo finalmente libero. La rivoluzione avviò una stagione di libertà e la democratizzazione della società portoghese mettendo fine alle guerre coloniali che stavano dissanguando il paese e l'avvio di grandi riforme sociali, in primo luogo la riforma agraria.

Per questa ragione Grândola vila morena continua ad essere per i portoghesi un simbolo di giustizia sociale e di libertà e non stupisce perciò che centinaia di migliaia di manifestanti il 3 marzo 2013 la intonassero durante lo sciopero generale contro le politiche liberiste ed antisociali imposte dalla troika europea che stanno affamando il Portogallo come la Grecia e producendo disastri sociali in altri paesi come la Spagna, l'Irlanda e l'Italia.
Nella speranza che le sue note si diffondano in tutta Europa vi invito ad ascoltare la versione di Grândola cantata dalla grande Amalia Rodrigues, a leggere il testo ed infine a vedere un video registrato a Lisbona il 2 marzo 2013 che troverete nel post successivo.


giovedì 30 gennaio 2014

Vicenza non è Macondo

Intervento al convegno Territori inondati organizzato da storiAmestre del 27/05/2011.

(Post modificato il 19/03/2020)


Dopo molto tempo ho deciso di pubblicare sul sito il mio intervento al convegno Territori inondati organizzato da storiAmestre il 27/05/2011. Perchè? Perchè storiAmestre aveva cominciato ben prima ad occuparsi della questione e ancor oggi se ne occupa producendo documentazione, convegni, azione civile e perché c'entra molto la storia (magari non la storia del movimento operaio in senso stretto, ma certamente sì la storia del territorio e la memoria che se ne conserva). C'entra anche il ricordo di una cara amica che ora non c'è più, Maria Luciana Granzotto, che per organizzare quel convegno si era spesa molto e mi ha convinto a parteciparvi con il testo che segue. 


Vicenza non è Macondo.
Piovve per quattro anni, undici mesi e due giorni. Ci furono epoche di pioviscolo durante le quali tutti si imposero i loro vestiti di pontificale e si composero una faccia da convalescente per festeggiare la spiovuta, ma ben presto si abituarono a interpretare le pause come annunci di rincrudimento. Si disselciava il cielo con tempeste di strepito, e il nord mandava uragani che sguarnirono tetti e sfondarono pareti, e sradicarono le ultime ceppate piantagioni. […] Il male era che la pioggia scombinava ogni cosa, e nelle macchine più aride spuntavano fiori tra gli ingranaggi se non venivano lubrificati ogni tre giorni, e si ossidavano i fili dei broccati e nascevano filetti di zafferano sulla roba bagnata. L'atmosfera era così umida che i pesci sarebbero potuti entrare dalle porte ed uscire dalle finestre, nuotando nell'aria delle stanze.[1]

Ho voluto iniziare con questo passo tratto da Cent'anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez nel quale si descrive una Macondo, luogo immaginario in cui si dipana la saga dei Buendia, afflitta da una lunga, interminabile e surreale stagione delle piogge. Ma perché direte voi? Vicenza non è certo Macondo, non è un abitato della sponda meridionale del Caribe prodotto della fervida fantasia narrativa di uno dei grandi scrittori del Novecento, ma una città reale del nord est italiano. Essa è stretta fra le prealpi, le ultime propaggini dei Lessini e la pianura padano veneta con un clima temperato e non quello sub-tropicale di Macondo. Tuttavia, quando la pioggia continua a cadere senza requie per dei giorni e l'acqua invade le strade che si convertono in fiumi, il paesaggio assume improvvisamente un aspetto irreale – ancorché maledettamente reale – quanto le immagini evocate da Gabo. Per giorni rimane nell'aria quel tanfo di umidità, di muffa e fogna che sembra non voler andarsene più e nei volti delle persone appaiono quegli sguardi straniti e sgomenti dalla precarietà della tregua concessa dalla pioggia.
Come dicevo, il territorio vicentino è delimitato a nord dall'altopiano di Asiago e dal massiccio del Grappa, dalla Valsugana bagnata dal fiume Brenta, a nord ovest dalla Valdastico, dal Monte Pasubio, ed ancor più ad Ovest dalle valli dell’Agno e del Chiampo che scendono dalle Piccole Dolomiti e dai Monti Lessini, le cui ultime propaggini giungono sino alla periferia della città. A sud si ergono i colli berici, a est/sud-est si apre infine la pianura. I due fiumi che bagnano Vicenza sono il Bacchiglione ed il suo affluente, il Retrone, che unificano il loro corso appena fuori città. Appena a nord di Vicenza (Villaverla - Dueville) la falda acquifera riaffiora in superficie in un sistema di risorgive che danno vita al Bacchiglioncello che – nel confluire con il bacino del Timonchio/Leogra (corsi d'acqua che hanno origine rispettivamente dal Monte Novegno e dal Monte Pasubio) diventa Bacchiglione poco prima di entrare a Vicenza. Esso prosegue verso sud est, attraversa Padova per poi confluire nel Brenta prima di finire in mare.
Vediamo cosa ci dice Wikipedia a proposito del Bacchiglione:
“Il corso totale del fiume è lungo circa 118 km ed ha un bacino di raccolta che si estende per 1400 km². La portata media del Bacchiglione presso Padova è di circa 30 m³/sec e si presenta sufficientemente copiosa anche in estate grazie all'apporto sorgivo di parte del bacino. Il fiume è comunque soggetto a piene autunnali e primaverili, talvolta anche disastrose.”
Ma cos'è successo il primo novembre 2010?
Quel giorno io non ero a Vicenza, sono rientrato soltanto nella notte del primo novembre a disastro consumato e, fortunatamente, il palazzo dove abito è stato graziato dall'allagamento. Il mio primo impatto con la calamità è avvenuto per radio; stavamo tornando da Trieste quando sentiamo la notizia che il sindaco di Vicenza ha decretato la chiusura delle scuole cittadine per l'indomani a causa dell'alluvione che ha colpito la città; a seguire giunse la notizia che l'autostrada A4 era chiusa fra Vicenza e Verona perché inondata e che erano interrotte tutte le vie di comunicazione fra Milano e Venezia. I notiziari raccomandavano a tutti gli automobilisti che da est dovevano raggiungere Milano di seguire la Padova/Bologna e da lì proseguire verso Milano. Restammo increduli davanti a queste notizie ma, man mano che viaggiavamo verso casa, la lunga colonna di auto che si formava per lo svincolo per Bologna e il reiterarsi degli annunci via radio ci convinse della gravità della situazione. A casa ci arrivammo molto tardi, quando a Vicenza aveva  già smesso di piovere; in casa e nelle immediate vicinanze tutto sembrava normale e decidemmo di attendere l'indomani per capire cosa realmente fosse successo in città.
Perciò il mio racconto di oggi sulla giornata di ognissanti si fonda, oltre  che sulle cronache del quotidiano locale, sulla testimonianza di due persone direttamente e pesantemente colpite dall'inondazione. Si tratta di due sorelle: una cara amica (Francesca) e la sorella (Graziella detta Lella) che hanno vissuto l'alluvione in due punti opposti della città, ma entrambe fra le zone più colpite dal maltempo.
I genitori di Francesca vivono in Viale Trento e la loro casa è stata sommersa dall'acqua e dal fango rimanendo confinati al primo piano per dei giorni. Francesca è giunta a casa dei genitori già alle 6 di quel mattino e con l'aiuto dell'altra sorella e - nei giorni successivi – anche dei volontari ha liberato la casa degli anziani genitori dalle acque limacciose. 
Lella invece gestisce con il marito Piero, che partecipa all’intervista, un salone di parrucchiere in Corso Padova, dalla parte opposta della città, proprio vicino al Ponte degli Angeli - da sempre uno dei punti critici della città - dove il fiume ha rotto alle 7,30 ed ha invaso le strade e le case. Lella ha dovuto occuparsi del proprio negozio aiutata da altri famigliari ed amici, oltre che dai volontari. 
Sono state proprio alcune delle cose raccontate dalle intervistate che mi hanno indotto a riflettere sul tema della memoria. Sulla memoria e sulla rimozione del ricordo dei disastri del passato più o meno recente.

L'autunno del 2010 è stata una lunga, lunghissima stagione di piogge (forse potremmo considerare tutto il 2010 come un anno particolarmente piovoso). Le settimane precedenti l'alluvione avevano visto forti precipitazioni ed il terreno era già fradicio, ma poi si era  abbassata la temperatura e la pioggia si era trasformata in neve nei rilievi prealpini. Nel ponte del primo novembre la pioggia si fa battente, un diluvio che registra 530 millimetri di pioggia in 48 ore nella provincia di Vicenza. Le precipitazioni sono particolarmente intense a nord delle valli del Leogra, dell'Agno e del Chiampo. All'ondata di maltempo si aggiunge lo scirocco. Il vento umido e caldo ha portato ad un improvviso innalzamento delle temperature anche in montagna provocando lo scioglimento delle nevi[2]. I corsi d'acqua già gonfi di pioggia aumentano la portata oltre i livelli di guardia. Al tempo stesso, a valle, lo scirocco rendeva più difficile il deflusso in mare delle acque con evidenti conseguenze  sui già rischiosi livelli dei fiumi. E' questo effetto combinato di fattori meteorologici a provocare l'alluvione. Così di primissimo mattino le acque del Bacchiglione escono dall'alveo appena a nord di Vicenza in località Lobbia e Rettorgole. Alle 7,30 il fiume esonda al Ponte degli Angeli e a Ponte Pusterla, a Contra' Chioare (nell'ansa situata appena dopo ponte Pusterla) l'acqua sfonda il muretto di contenimento ed invade la zona di S. Maria di Araceli, il Parco Querini, i quartieri di San Marco, San Pietro e Santa Lucia, Corso Padova, l'Isola, i Carmini, entra anche nel Teatro Olimpico (fortunatamente senza compromettere il monumento). Queste sono le zone colpite nel centro storico della città, ma l'acqua inonda  anche altri quartieri: Viale Trento,  Viale Diaz e Viale Ferrarin nella zone nord ovest della città, Viale G.G. Trissino e la zona Stadio ad est. Tutto il sistema fognario va in crisi e così anche cantine e scantinati di zone oggettivamente lontane dai corsi d'acqua si riempiono di acqua e fango. Verso le 9 a Vivaro - a nord della città - il fiume sfonda l'argine e in pochi minuti allaga rapidamente l'abitato della frazione di Cresole di Caldogno, qui la violenza dell'acqua farà la prima delle 2 vittime del nubifragio, Giuseppe Spigolon (l'altra vittima sarà Mario Menin). L'acqua esonda infine nella zona a sud est di Vicenza: Debba, Longare e Montegalda.    

Varda i pomi del papà! Il racconto di Francesca.
Papà ci ha telefonato verso le 5,30 del mattino per dirci che l'acqua aveva invaso la cantina, ci ha chiamate tutte e tre e siamo arrivate tutte prima delle 6. L'acqua era salita da sotto, dal pavimento ed aveva raggiunto il soffitto della cantina, quando aprivi la porta che da accesso alla scala che scende giù, l'acqua era quasi a livello del piano terra. Io ho detto a mia sorella Lella: “ma tu sei andata a vedere com'è il negozio prima di venir qua? Ti conviene andare a controllare perché se l'acqua è così alta qui, a Ponte degli Angeli è peggio.” Poi si è visto che l'acqua cominciava ad uscire anche dal fiume e con Laura, l'altra sorella, abbiamo cercato di trarre in salvo le macchine del laboratorio di macelleria di papà che cominciava ad andare sott'acqua. Lì l'acqua mi arrivava al seno. Nel giro di pochi minuti essa ha cominciato ad entrare in casa; abbiamo cercato di alzare mobili ed elettrodomestici, ma in pochissimo tempo era già alta 50 centimetri: è arrivata a lambire il materasso del letto. Un'ora dopo, il parcheggio del PAM davanti a casa era già tutto sott'acqua. In un primo momento avevamo lasciato la macchina proprio nel parcheggio del supermercato, ma per fortuna abbiamo pensato di spostare le auto in Via Pecori Giraldi, dietro al supermercato stesso, dove la strada prosegue in leggera salita. Inizialmente le abbiamo lasciate all'altezza di Via Stuparich, a circa 200 metri di distanza dal primo parcheggio, ma poi, visto come saliva il livello dell'acqua, le abbiamo portate 200 metri più su, vicino alla gelateria Babilonia. Stavamo tornando verso casa dei miei quando indico stupita a mia sorella: “varda i pomi del papà!”. Le mele stavano galleggiando verso di noi a 3/400 metri da casa, l'ondata di piena se le era portate via. I miei genitori ed il loro cane resteranno confinati al primo piano di casa ancora per parecchi giorni.

Accolti dai vicini. Il racconto di Lella e Piero.
Io e Piero abbiamo dato ascolto al consiglio di Francesca e alle 6 siamo andati verso il negozio per vedere la situazione. C'era un sacco di gente che guardava con preoccupazione il fiume dal ponte. La protezione civile stava preparando i sacchi di sabbia e la situazione sembrava critica sì, ma non più di tante altre volte. Perché devi sapere che nel quartiere siamo abituati a vivere in allarme. Almeno un paio di volte all'anno il fiume fa paura sul Ponte degli Angeli. Magari un po' d'acqua ci entra, ma poi tutto torna a normalizzarsi. Tant'è che, prima di entrare in negozio, siamo andati a bere il caffé nella pasticceria di fronte. Stavamo commentando con il pasticcere la situazione quando sono entrate alcune persone della protezione civile. Abbiamo chiesto cosa ne pensavano e ci hanno detto che il livello era molto alto, ma che stavano monitorando. Devi sapere che il nostro salone di parrucchiere ha due stanze: la prima con l'entrata in Via XX settembre e l'altra - più alta di 30/35 centimetri e separata da 2 scalini - che ha un'uscita secondaria in un corridoio ed una scala condominiale che esce in Via IV Novembre. Piero ha deciso di portare per sicurezza l'auto alla Madonnina, dietro l'Istituto Rossi, una zona lontana dal fiume. Poi abbiamo cominciato a mettere in salvo le attrezzature nella stanza più alta mettendole sopra il lettino, con l'idea che così facendo fossero al sicuro. Ad un certo punto l'acqua però comincia ad entrare da Via IV novembre e subito dopo anche da Via XX settembre. In pochi minuti il livello cresce, non si può più uscire dall'ingresso principale. Piero cerca di forzare l'uscita secondaria e con fatica ci riesce; a quel punto l'acqua entra senza ostacoli. Dentro il negozio raggiungerà 1,40 m. di livello. L'uscita in strada di Via IV novembre è però bloccata dai sacchetti di sabbia messi a difesa dall'acqua, l'unica possibilità è salire le scale verso gli appartamenti al piano superiore. Il vicino, un giovane serbo con un figlio piccolo, ci accoglie. Noi siamo completamente bagnati e ci offre vestiti asciutti, da mangiare e da bere. Le strade intorno sono completamente allagate; dopo un po' gli unici mezzi a circolare sono barche, canotti e mezzi anfibi. La moglie del nostro ospite è infermiera presso l'ospedale e quel mattino era di turno. Quando trapela la notizia dell'alluvione chiama a casa per sapere com'è la situazione. Il marito la tranquillizza, le dice di non preoccuparsi, che la casa non è raggiungibile, ma che loro stanno bene. Verso sera la signora riesce a farsi accompagnare a casa con una barca dei pompieri ed a salire in casa dalla finestra, così noi scendiamo dalla stessa finestra e veniamo accompagnati fuori dalla zona allagata. Riusciamo così a raggiungere la macchina e tornare a casa. Al disastro ci avremmo pensato  l'indomani.

Vicenza rimane tagliata in due dall'acqua, molte strade sono impraticabili. Soltanto verso sera, grazie ad una tregua della pioggia, il fenomeno sembra rientrare e già dal 2 novembre si cominciano a svuotare le case e i negozi: un lavoro che durerà parecchi giorni.
Il fango rende tutte le cose indistinte, mucchi di macerie si riversano nelle strade. Secondo Francesca molte delle cose che sono state buttate potevano essere recuperate, ma a prezzo di lunghe ore di pulizia e non c'era tempo. Bisognava  liberarsi da quel limo, riuscire a pulire le pareti ed i pavimenti delle stanze con acqua pulita, togliere il fetore e l'umidità che avevano impregnato le case. Ecco che allora diventa necessario liberarsi di tutti gli oggetti lordi, anche quelli a cui sei affezionata.
Lella ci racconta come già dal giorno dopo scatta una enorme solidarietà, la zona dove ha il negozio è uno dei punti più critici della città, a due passi dal Teatro Olimpico e dalla centrale operativa della Protezione Civile. Qui le squadre di soccorso di volontari arrivano subito, si tratta di persone di tutte le età, ma soprattutto molti giovani che aiutano a liberare le case dal fango. Lella ha grandi parole di elogio per queste persone ed anche per l'efficienza dimostrata dal Comune e dalle Aziende Municipalizzate che ogni mezz'ora svuotavano i grandi cassoni messi per raccogliere le masserizie. La disgrazia – mi racconta - ha fatto emergere la solidarietà anche fra i commercianti ed artigiani del quartiere colpiti dall'alluvione. Ci siamo aiutati reciprocamente, abbiamo scambiato informazioni e consulenze sulle richieste di rimborso da presentare in Comune, ci siamo chiamati ad ogni nuovo allarme e più volte in quei giorni abbiamo mangiato assieme. Si sono rafforzate le relazioni fra di noi.
Non così immediati invece sono stati i soccorsi in quartieri più periferici come a Viale Trento, replica Francesca, lì gli aiuti non sono arrivati prima di mercoledì/giovedì e, forse perché le strade sono meno strette, anche la raccolta delle AIM non è stata così solerte: a guardare Viale Trento sembrava che fosse stato colpito da un tifone. Poi comunque anche lì sono arrivati gli aiuti.

Va riconosciuto che la risposta dei volontari, fra i quali moltissimi giovani le cui scuole erano chiuse, ma anche pensionati e persone di tutte le età e provenienze, è stata esemplare. Si vedevano circolare in continuazione autobus cittadini che accompagnavano squadre di ragazzi armati di badile nelle varie zone della città. Lo sforzo collettivo era palpabile ed effettivamente - nel giro di una decina di giorni - il grosso del lavoro era stato realizzato. Un lavoro fatto contro il tempo e sotto la costante minaccia di nuove piogge che sembravano non dar tregua e rendere inutile il lavoro svolto.
Quando il 9 novembre Berlusconi e Bossi arrivano a Vicenza, la città  è in buona parte già liberata dal fango. 
Fu, come sappiamo dalle cronache, una visita invocata dal governatore Zaia, dopo l'iniziale percezione collettiva che la tragedia fosse stata sottovalutata dal governo centrale, ed era volta a rassicurare la popolazione che non sarebbero mancati gli aiuti governativi. Si trattò di una visita breve, il tempo di incontrare in Prefettura i sindaci dei comuni del vicentino colpiti ed assicurare loro un primo stanziamento di 300 milioni di euro per il Veneto[3]. Le cronache locali parlano di poche voci di protesta, ma fanno trasparire anche un'accoglienza fredda, diffidente. La visita a Padova – avvenuta qualche ora dopo – sarà segnata dall'ostilità e dall'indignazione di molti cittadini. Quello che non sono riuscito a capire è cosa ci facesse il Trota, il figlio di Bossi (lui si capisce,  la Lega ha in questa provincia uno dei feudi più saldi), ma forse è il preludio all'ereditarietà della carica  di ministro o di senatùr.
Due giorni dopo la visita del capo del governo è arrivato in città il Presidente della Repubblica che aveva raccolto l’invito del sindaco di Vicenza di venire a vedere il disastro. L'accoglienza è stata decisamente diversa, forse perché Napolitano aveva espresso il desiderio di incontrare e ringraziare i volontari. L'indomani Il Giornale di Vicenza aprirà così: Pace fatta. Napolitano riavvicina l'Italia a Vicenza[4].

Vivere in emergenza.
L'alluvione ha colto di sorpresa. Al di là delle polemiche emerse nei giorni immediatamente successivi sui comunicati trasmessi dall'Arpav, nessuno si aspettava un fenomeno di queste proporzioni. Quanto accaduto però ha obbligato amministrazione e protezione civile ad una maggiore attenzione. Del resto, non prendere sul serio gli allarmi che dopo il 1 novembre si sono succeduti sarebbe stato imperdonabile. Molteplici infatti sono state le occasioni di allarme causate dal maltempo nei giorni a seguire, ma oramai le misure di prevenzione erano oliate. Di piovere non ha mai smesso per tutto il mese di novembre e dicembre e molti sono stati i momenti critici. Il primo di questi accade martedì 16 novembre. Sono passati appena 15 giorni, la città ha appena finito di spalar fango e non si è ancora ripresa che, all'ora di pranzo, cominciano a suonare le sirene d'allarme. I vigili urbani con i megafoni avvisano la popolazione delle zone a rischio di mettere in salvo automobili e beni e molti dei volontari mobilitati nei giorni precedenti si presentano presso il centro operativo della protezione civile e cominciano a riempire sacchi di sabbia. In poche ore infatti, nonostante le piogge in città non fossero state particolarmente intense, il livello del fiume è cresciuto di 2,70 m. L'onda di piena arriva da nord, dalle montagne e fa paura. Io stesso sono uscito dall'ufficio per il pranzo e, sentite le sirene, mi sono avvicinato a Ponte Pusterla: il fiume era impressionante. Esso continuerà a crescere per altre 2 ore sino a toccare i 5,30 m. a Ponte degli Angeli (a 6 m. il fiume esonda), ma poi lentamente l'allarme rientra. 
Ogni schiarita sembra proprio essere il preludio di un nuovo e più violento nubifragio tanto che il Giornale di Vicenza titolerà la prima pagina così: Da un mese piove due giorni su tre. A novembre sono caduti 800 mml: è un record[5]. Gli allarmi si susseguono in continuazione: domenica 22 novembre, il 23 dicembre,  l’antivigilia di natale, quando si riproducono condizioni analoghe a quelle del 1 novembre (grandi piogge e scirocco), sino all'ultima in ordine di tempo del 16 marzo che ha visto tornare sott'acqua i paesi del veronese già colpiti in novembre. Il ripetersi degli allarmi però ha effetti disastrosi sugli alluvionati. La frequenza delle sirene e dei megafoni non permette alle persone colpite di ritornare alla normalità, di effettuare quella rimozione del ricordo necessaria a riprendere i ritmi della quotidianità, provoca ansie e disperazione. Lella ci racconta di una giovane signora che aveva un negozio di intimo vicino al loro salone che dopo l'alluvione aveva rifatto nuovamente il negozio con arredi nuovi e tutto. Ma dopo un mese non ce l'ha più fatta ed ha chiuso. Non riusciva a convivere con gli allarmi ed ha trasferito il negozio in un'altra zona  del centro più 'sicura'. Il ripetersi del rischio di finire come il 1 novembre ha prodotto un perfido effetto collaterale: il fatalismo. Raccontano infatti Piero e Lella che quando c'è stato l'ultimo allarme di marzo - nonostante la macchina comunale avesse provveduto ad avvisare capillarmente del nuovo pericolo e lasciato nei punti stabiliti i sacchi di sabbia che ciascuno doveva raccogliere per mettere davanti ai propri ingressi, - pochissimi nella zona li hanno raccolti. In prima battuta spiegano il rifiuto come una reazione al fatto che non si era ancora provveduto a dragare il grande mucchio di rena che si era accumulata sul letto del fiume proprio in prossimità del ponte. In effetti ancor oggi se si passa sul Ponte degli Angeli lo si vede e, benché i tecnici abbiano assicurato gli interessati che non è pericoloso e che ci sono problemi più urgenti da affrontare, è difficile non pensare quale ostacolo potrebbe rappresentare questo mucchio di sabbia nel caso di una nuova piena. In realtà, tornando poi sull'argomento, Lella e Piero spiegano che non sarebbe sopportabile, né umanamente né economicamente, un altro 1 novembre. Piero mi dice: “Qualche giorno dopo la piena di marzo dovevamo partire per l'Africa dove vive nostra figlia ed io ho detto a Francesca: se dovesse entrare l'acqua un'altra volta finché siamo via tu fai soltanto una cosa, apri la porta e che l'acqua faccia quello che vuole”.  

Una certa dose di rimozione della memoria diventa necessaria per un ritorno alla normalità perché la psicosi di una vita soggetta a continui allarmi genera fatalismo e, col tempo, l'assuefazione fa abbassare la guardia.  Tuttavia sarebbe importante e necessario tener presente che viviamo in una città  in cui il rischio di acque alte esiste. Magari non è un fenomeno frequente, ma un fenomeno possibile e quindi, come diceva nel suo intervento alla precedente edizione di Acque alte a Mestre e dintorni il prof. D'Alpaos, bisogna imparare a conviverci.[6]
Anche lo scrittore e critico musicale vicentino Cesare Galla  giunge ad una analoga esortazione nell'opuscolo sulla Grande Alluvione pubblicato dal Giornale di Vicenza che raccoglie le immagini più significative dell'alluvione del 1 novembre 2010[7]:

Vicenza è una città di fiumi, ma i vicentini tendono a dimenticarselo. Negli ultimi secoli la nostra storia idrografica è stata una ripetizione seriale di eventi disastrosi. Così, negli archivi continuano ad accumularsi, sovrapponendosi, immagini drammaticamente uguali a se stesse. Una per tutti? Santa Maria in Araceli, il gioiello barocco di Vicenza, invasa dalle acque. E barche di soccorso che navigano nel lago in cui si è trasformato il sagrato. Nel 2010 come nel 1966, nel 1926, nel 1905.... La memoria, questo tipo di memoria, viene considerata inutile, stucchevole, e quindi sbiadisce, si cancella. Così, ogni volta, il disastro è una sorpresa. Solo recuperandola compiutamente, vivendola intimamente, potremo essere davvero pronti ad affrontare la furia dell'acqua e magari anche ad evitarla. Altrimenti continueremo a stupirci e disperarci.

E' questa argomentazione che mi ha fatto riflettere e che mi ha spinto a scavare a ritroso nella memoria cittadina, più o meno recente, alla ricerca delle alluvioni dimenticate. 
Non è stata del tutto dimenticata l'alluvione del 1966 perché molti vicentini ricordano di averla vissuta e infatti è con quella che si è confrontato quanto accaduto nel novembre scorso. Molti di voi ricorderanno quell'alluvione perché ha colpito molte parti d'Italia e le immagini di Firenze, travolta dall'Arno in piena, ne sono diventate il simbolo. Il quotidiano locale, nei giorni successivi alla calamità, ha riproposto immagini d'archivio dell'alluvione del 1966, e molte testimonianze e confronti[8]. Nell'opuscolo di cui vi parlavo[9] c'è una foto in cui un signore segnala il livello raggiunto dall'acqua che supera di qualche decina di centimetri la “lapide di livello”  del 1966 (cfr. foto).
La lapidi di livello vengono ovviamente poste soltanto in occasione di eventi particolarmente disastrosi, non in tutti i casi di alluvione. Mi sono così incuriosito e sono andato a cercarle in città. Qualcuna ricordavo di averla notata, ma è bastato percorrere le zone più a rischio del centro per trovarle. Ne ho fotografate alcune che ora vi mostro (cfr. foto). In tutte quelle individuate le date che si ripetono sono tre: 1882, 1905 e 1966 (alle quali, con buona probabilità, potrebbe aggiungersi il 2010). Come potrete vedere, in alcuni punti le tre date sono facilmente confrontabili e potremmo dire, con un certa approssimazione, che le alluvioni del 1905 e del 1966 hanno raggiunto all'incirca lo stesso livello, mentre la più tremenda è stata l'alluvione del 1882 il cui livello raggiunto è notevolmente più alto delle altre due.
Sono così andato alla ricerca di qualche documento sulla calamità del 1882 ed ho trovato questa descrizione lasciata dal vicentino Vincenzo Zanella e citata in un suo saggio da Mariano Nardello[10]

“Da pioggia continuata, si alzò il Bacchiglione, che formò una brentana, alta più del consueto, che fù anche dentro alla chiesa dei Carmini, e in contrada S. Lucia arrivò fino al palazzo del sig.r Zilio. E fù la sera di venerdì ed il giorno di sabato quindici e sedici settembre, si alzò ancora [...] Dalla sera di venerdì, che aveva coperte le due strade di portici Padova e S. Lucia, lavorò le barche a passare i passeggieri fino la sera di lunedì successivo, li diecinove settembre. Il martedì poi le due contrade […] eravi una brentana di fango liquido grandissima. In somma questa innondazione farà epoca memoranda più di quella del 1822 e del 1845. In chiesa all'Araceli arrivò vicina a sormontare i altari di fianco, e l'altare maggiore aveva l'acqua alla cima, dove il sacerdote celebra. Le murette del ponte degli Angeli, quantunque grosse e coperte di pietra grossa e pesante, in quattro parte le furono rovesciate in acqua e sopra al ponte; parte del marciapiedi del ponte fù sollevate le pietre, e portate fuori del suo posto. All'Araceli rovesciò più della metà della mura, che era a parte destra della chiesa;[...] Furono aperte sottoscrizioni per soccorrere i danneggiati, e il denaro che aveva a servire per festeggiare il giorno venti settembre, giorno della presa di Roma, e quello anche per fare un monumento al generale Garibaldi, stante la gran miseria a causa delle generali innondazioni, fù devoluto a totale benefizio delle famiglie povere. [..] Venerdì, circa alle ore due dopo al mezzo giorno, arrivò qui Sua Maestà Umberto I, e volle andare a rivedere tutti i danni fatti dalle acque; ed in molte contrade si portò a piedi, con tutto il suo seguito. Indebolito dalle scosse dell'acqua, la mattina di domenica li ventiquattro settembre precipitò il ponte novo sul Bacchiglione: era un ponte di quadrelli ad un solo arco; era circa alle ore undeci mattina, e fù un vero miracolo che nessuno in quel momento gli fosse passando sopra: era all'altezza di quindici metri. Era fatto nel 1793. Nelle prime ore del mercordì li ventisette settembre fù sentita una scossa forte di terremoto. Martedì li ventisei settembre, alle ore quattro e mezzo pomeridiane circa, precipitò il ponte della ferrovia a Lerin, sopra il fiume torrente Tesina, che era appena passata la corsa che da Vicenza arriva a Padova; questo ancora caddè a causa del troppo umido e della troppa acqua, che continua la pioggia ancora. In questa inondazione fù distrutto il ponte ferroviario tra Cittadella e Vicenza. Venerdì li ventinove settembre, si cominciò a vedere una cometa, a parte di levante; la sua stella e [sic] piccola ed ha una coda lunghissima, e bella. Sembra ai nostri occhi vada crescendo ogni giorno; la si vede bella nelle ultime ore della notte. […] Dopo la seconda brentana, che fù alli quindeci e sedeci settembre, venerdì e sabbato, abbiamo avuto rare giornate di buon tempo, e quasi sempre pioggia in larga copia, con temporali, che alla mattina di sabbato l'acqua si alzò, che sortì dai alvei e formò la terza brentana, allagando nuovamente le contrade S. Pietro e S. Lucia, per cui furono adoperate barche e carri pel trasporto dei passaggieri. […] Danni grandissimi produssero le piene dei fiumi, e danni grandi per i sorghi e foraggi rimasti sotto alle acque: le valli di Fimon, tanto ubertose di sorghi quest'anno, appena appena lo si fece servire per pasto alle bestie.”

Se facessimo un confronto con le cronache dei primi giorni dopo l'alluvione dello scorso anno, potremmo tranquillamente sostituire (almeno per il centro cittadino, altri quartieri ora colpiti allora erano campi) la descrizione dello Zanella ai resoconti fatti dai giornalisti, tanto i luoghi e e le immagini sono gli stessi di 129 anni fa. 
Ci sono state altre piene non degne di essere menzionate in una lapide, ma non per questo meno disastrose: lo stesso Zanella nella sua descrizione ne ricorda altre due nel corso del XIX secolo: il 1822 ed il 1845, così come abbiamo visto Galla citare la piena del 1926. 
Inoltre se ne ricordano altre negli anni Trenta, ma anche in periodi molto più vicini a noi, del resto ricorderete che non era la prima volta che l'acqua entrava nella bottega di Piero e Lella: è solo una questione di proporzioni.

Ritorniamo allora al discorso di Galla e vediamo di dare un senso a quel  “recuperare compiutamente e vivere intimamente la memoria dell'acqua alta”. Io credo che in primo luogo significa interiorizzare la consapevolezza di vivere in un territorio esposto periodicamente a questi rischi e quindi costruire una coscienza collettiva capace di indignarsi e reagire contro gli abusi sul territorio perpetrati da appetiti pubblici e privati. Vuol dire sviluppare una sensibilità per cui – ad esempio - non solo non è etico, ma risulta anche pericoloso e dannoso economicamente costruire immobili che si sviluppano nel sottosuolo (garages, taverne ecc.) in prossimità di aree di risorgiva. Le attuali tecniche di costruzione consentono ovviamente  di ottimizzare – in un regime dei prezzi dei suoli sempre crescente – lo spazio occupato ricavando vani ipogei, ma si deve tener conto di dove si costruisce, altrimenti periodicamente questi sotterranei sono destinati a trasformarsi in serbatoi di laminazione delle piene, in vasche d'acqua e fango. Anche quando non si arriva a tanto: pensiamo a quanto sono costrette a lavorare le pompe ad immersione per evitare che non si riempiano d'acqua? Quanta energia consumano? Del resto non è un criterio molto diverso da quello universalmente condiviso per cui in zone soggette a rischio di terremoto, le costruzioni devono essere fatte con criteri antisismici. Vorrei sottolineare che non si tratta di una polemica contro il modello della tavernetta ed il garage interrato (il mio stesso garage è interrato) ma contro la scarsa attenzione degli uffici tecnici comunali da un lato, e la minimizzazione dei rischi da parte delle imprese costruttrici dall'altro, le quali spesso bollano come impedimenti burocratici tali eccezioni (del resto loro costruiscono per vendere, mica è un problema loro se poi chi ci va a vivere è esposto a rischi di allagamento). Il discorso sui criteri degli insediamenti abitativi va inserito poi, in una più generale attenzione collettiva sul governo del territorio e la realizzazione di opere per la difesa idraulica. Nei giorni immediatamente successivi tutti: cittadini, amministratori locali, protezione civile, governo regionale e nazionale hanno dichiarato che la priorità è realizzare subito le opere necessarie per evitare il ripetersi di disastri analoghi in futuro. Sappiamo però che, per far questo, sono necessarie risorse, ma anche idee e progetti coerenti e che – a parte qualche intervento tampone – ci vuole tempo. Ed è qui che diventa necessaria mantenere viva la memoria collettiva dell'alluvione, altrimenti ce ne ricorderemo soltanto alla prossima stagione di grandi piogge. Vi riporto qui un dichiarazione rilasciata al G.d.V. dal prof. D'Alpaos: 

[…] è dal novembre del 1966 che si parla di rischi idrogeologici e della possibilità che riaccada quanto avvenuto 44 anni fa – prosegue il prof. D'Alpaos -, ma il fatto è che se ne parla soltanto. Mi rendo conto che la politica non ha interesse alla realizzazione di opere per la difesa idraulica perché se lo facesse oggi, non lo farebbe pensando all'attualità, ma ai figli se non addirittura ai nipoti, non so se rendo l'idea della prospettiva dell'utilità.” Un bella strada pre-elettorale – chiosa l’intervistatore - è di certo più spendibile in termini politici, lascia intuire D'Alpaos...[11]

Una diversa sensibilità verso il territorio in cui si vive significa mantenere vigile l'attenzione dell'opinione pubblica sugli interventi a salvaguardia dello stesso controllando che le amministrazioni (locali, regionali e nazionali) li portino a realizzazione. Le amministrazioni, nel realizzare le grandi opere, devono imparare a coinvolgere e condividere le scelte con la popolazione interessata, gli studi dei tecnici devono poter essere vagliati da altri tecnici e dai cittadini in modo che sugli interessi particolari prevalgano gli interessi generali. Faccio l'esempio della polemica scoppiata sul giornale locale - qualche giorno dopo l'alluvione - sulla mancata realizzazione di un canale scolmatore di piena del bacino del Retrone[12] i cui lavori erano già stati appaltati nel 1988 ad una associazione di imprese. I lavori furono subito bloccati dalla protesta dei comitati di cittadini sostenuti anche dalle amministrazioni comunali interessate (in particolare il Comune di Arcugnano, nel cui territorio era previsto l'intervento più significativo). Il prefetto Sergio Porena si rifiutò di firmare il decreto di urgenza ed il lavori furono interrotti sul nascere. Così, anziché approdare ad una soluzione alternativa e condivisa, si è arenato tutto ed è stata pagata una penale di 6 miliardi e mezzo di lire alle ditte aggiudicatarie per la risoluzione del contratto, senza che alcun lavoro fosse eseguito. Non ho avuto il tempo di approfondire la vicenda, tuttavia credo che quando si intende realizzare un piano di salvaguardia del territorio si debba cercare di coinvolgere la popolazione interessata e le amministrazioni locali in modo che le scelte siano ampiamente condivise, bisogna saper ascoltare le voci di dissenso ed anche le alternative proposte se sono credibili, sempre però avendo presente il bene comune. Un processo che dovrebbe avvenire prima e non dopo il bando di gara per l'esecuzione delle opere. In questi frangenti le difficoltà non mancano, ma la democratizzazione delle scelte non deve portare all'inazione. Il problema deve essere risolto e non messo da parte: è questa la sfida.

Io auspico che si faccia strada questa nuova sensibilità e che la memoria del disastro sia per una volta “maestra di vita”, tuttavia non so se non sia troppo tardi per porre rimedio a un territorio brutalizzato dalla speculazione edilizia come il nostro (parlo del vicentino, ma anche del Veneto e, più in generale, di quella grande conurbazione che va da Trieste ad Aosta) trasformato in una immensa periferia – senza soluzione di continuità - punteggiata da villettopoli senza servizi, da una moltitudine di centri commerciali, da zone artigianali e industriali che la delocalizzazione ha svuotato e reso ancora più deprimenti. Vi sottopongo solo alcuni dati relativi al censimento 2001 (quindi oramai vecchi)[13]: il Veneto constava di 1.699.521 abitazioni occupate e 318.055 abitazioni non occupate pari al 15,76% sul totale (i dati per la provincia di Vicenza sono rispettivamente 295.045 e 57.575  pari al 16,32% sul totale), con una media di 2 stanze per abitante. E' un indicatore, ovviamente i dati andrebbero disaggregati, ma ci dà l'idea del surplus di patrimonio abitativo regionale. A questo si aggiungano le costruzioni destinate ad altri usi che occupano aree ancora più vaste. Non so come si sia evoluta la situazione ad un decennio di distanza dall'ultimo rilevamento, ma una cosa è certa: l'assalto al territorio non si è mai fermato. Soltanto la crisi che ha colpito l'economia negli ultimi anni ne ha rallentato il ritmo. La cementificazione del territorio rende molto più difficile (o quanto meno molto più costoso) qualsiasi intervento di difesa idraulica e si complicano gli interessi in campo. Per questo per la salvaguardia e la riqualificazione del territorio è necessaria una rivoluzione della coscienza collettiva. Ma forse per questo Vicenza dovrebbe diventare Macondo ed i suoi abitanti dei personaggi letterari.









[1]                Gabriel Garcia Marquez, Cent’anni di solitudine, Feltrinelli, 1978 pp. 324-325
[2]                Il limite della neve si innalza a 2100/2300 metri, cfr. Bollettino ARPAV 30/10/2010 h. 14,00.
[3]                Inizialmente era prevista anche una visita a Cresole ed un incontro con il sindaco di Caldogno, ma all'ultimo è stato annullata.
[4]                Il Giornale di Vicenza 12/11/2010
[5]          Il Giornale di Vicenza, 9/12/2010
[6]                Nell'intervento del 14.12.2010 ai seminari di storia e geografia Acque alte a Mestre e dintorni, il prof. Luigi D'Alpaos esordisce così: “Io non credo di essere in grado di darvi grandi suggerimenti per difendervi dalle alluvioni, posso forse auspicare che impariate a convivere con le alluvioni...” ; cfr. anche l'intervista rilasciata il 3.11.2010 a Il Giornale di Vicenza dal titolo: Si parla di rischi, ma se ne parla solo, p. 17
[7]                La Grande Alluvione – Novembre 2010,  supplemento a Il Giornale di Vicenza del 22.11.2011
[8]                Cfr. in particolare S. Girlanda, Sala: “Aiuto da tutti. La lezione di allora è l'augurio per Vicenza”,  Il Giornale di Vicenza, 4.11.2010, p. 17.
[9]          La Grande Alluvione..., op. cit., p. 22.
[10]              Libro di memorie raccolte da Vincenzo Zanella 1852 – 1886, cit. in: Nardello Mariano, La società vicentina dall'annessione del Veneto alla Prima Guerra mondiale, Storia di Vicenza, L'età contemporanea, vol. IV/1, Neri Pozza Editore, 1991, pp. 45-46.
[11]         Già citato S.G., Si parla di rischi, ma se ne parla solo, Il Giornale di Vicenza, 3.11.2010, p. 17 

[12]         C.R., Una beffa da 5 milioni di euro, Il Giornale di Vicenza, 10.11.2010, p.8, cfr. anche gli articoli a pag. 9
[13]              Elaborazioni della Regione Veneto – Direzione Sistema Statistico Regionale su dati Istat. Il numero medio di stanze per abitazione è per la regione di 4,5 (4,6 per Vicenza) e la popolazione residente 4.527.694 unità (794.317 unità per Vicenza)