giovedì 5 giugno 2014

La fabbrica nella polvere

Commento ad alcune foto scattate allo stabilimento valdagnese della Manifattura Lane G. Marzotto & Figli nel dicembre 2013.

Il presente articolo è stato pubblicato (con qualche piccola modifica) nella pagina web di storiAmestre (www.storiamestre.it), associazione di cui mi onoro di far parte.

Se si arriva a Valdagno dal fondovalle e, all'ingresso del paese, si prende la tangenziale esterna che porta verso Recoaro, ad un certo punto dall'altra parte del fiume appare il grande storico stabilimento della Manifattura Lane Marzotto. Da un po' di tempo l'immagine è desolante. I moltissimi vetri rotti della facciata fronte strada dell'opificio riflettono una sensazione di disuso, di abbandono. A dire il vero, guardando l'ingresso dello stabilimento, la pensilina e la portineria mantengono ancora un decoro ed i fasti da Grand Hotel, ma si non vede più il fluire di migliaia di lavoratori come un tempo e solo una parte degli uffici e dei reparti è ancora utilizzato, il resto è vuoto.
Questa fabbrica che ha rappresentato – assieme alla galassia di Alessandro Rossi nella vicina Schio – il terzo polo della prima industrializzazione italiana è ora un relitto di archeologia industriale. Per quasi due secoli ha segnato i destini della popolazione della vallata, è stato al contempo dannazione e speranza per i molti lavoratori che lì dentro hanno trascorso la loro vita ed ora è lì, enorme parallelepipedo silente. Pochissimi gli addetti rimasti a lavorare nello stabilimento, poco più di cinquecento. La produzione laniera che fino al 1968 contava 5000 operai (numero già in forte flessione rispetto al dopoguerra) ora non è più qui. La dura ristrutturazione in atto in quel lontano 19 aprile 1968 aveva fatto scoppiare la rabbia operaia di una classe che si era sempre mostrata pronta a chinare il capo, ma che, sentendosi tradita, aveva reagito rompendo i vetri della fabbrica, scontrandosi duramente con la polizia ed abbattendo la statua del fondatore Gaetano Marzotto Senior per rivendicare il diritto ad una condizione di vita decente in fabbrica come fuori. Lo scontro di allora fu seguito da una lunga lotta che – per la prima volta dalla nascita del lanificio – non finì in una sconfitta per gli operai. Essi ottennero condizioni di lavoro più decenti e di essere espulsi dalla fabbrica senza un calcio nel culo. Perché la produzione tessile era già allora un settore maturo che subiva la concorrenza dei paesi emergenti, ma una diversa idea delle relazioni industriali e l'integrazione della produzione nel sistema moda italiano ha permesso una riduzione più dolce degli addetti e i Marzotto hanno anche sostenuto con aiuti finanziari le nuove iniziative industriali che nascevano nel territorio per dare nuove opportunità alle nuove generazioni e scrollarsi il fardello della company town che avevano generato. Un defilarsi lento che – con i diktat della globalizzazione – subisce un'accelerazione; la produzione abbandona Valdagno e gli altri stabilimenti in Italia per essere svolta nelle fabbriche della Lituania, della Romania e della Repubblica Ceca post comuniste o dall'altro lato del mediterraneo. Per avere un'idea in numeri dell'esodo prendiamo i dati indicati nell'ultimo bilancio disponibile del Gruppo Marzotto (31 dicembre 2012): 3.479 addetti di cui 1350 in Italia, 998 in Repubblica Ceca, 380 in Lituania, 150 in Romania, 574 in Tunisia; di primo acchito l'azienda sembrerebbe avere ancora una forte base in Italia, ma la pagina web del gruppo parla di 11 stabilimenti in Italia e 5 siti produttivi all'estero, ecco quindi che il peso della produzione in Italia sembra diluito in molti stabilimenti con poche decine di addetti. Le relazioni di bilancio danno conto inoltre di piani di chiusura di alcuni degli stabilimenti italiani: la definitiva chiusura della divisione tessuti di Sondrio (14 addetti), la chiusura degli stabilimenti di Villa d'Almé (Bergamo) e di Fossalta di Portogruaro (94 addetti), il licenziamento di 51 addetti della società del gruppo Ratti Spa, 7 licenziamenti nella Collezione Grandi Firme e la chiusura dello stabilimento di filatura pettinata a Piovene Rocchette (121 addetti). La chiusura di Piovene mi ha visto testimone nei primi mesi dell'anno scorso di una singolare e toccante dimostrazione di protesta da parte dei lavoratori licenziati: essi avevano crocifisso le proprie tute di lavoro alle inferriate della fabbrica, l'immagine evocava le vittime di un massacro esposte a monito della popolazione.
La nota di bilancio parla anche di un contratto di flessibilità raggiunto con le organizzazioni sindacali del GMF (Gaetano Marzotto & Figli) di Valdagno che riguarda 221 addetti, non si capisce se questo è il numero totale degli addetti valdagnesi o se sono quelli interessati alla flessibilità.
I vincoli con la comunità si sono allentati, l'azienda è sempre più internazionale ed anche la società è cambiata: nell'era del pensiero unico liberista nessuno osa più sognare una società più giusta, né reclamare il diritto ad una vita dignitosa, l'unico dogma è la libera circolazione dei capitali e la riaffermazione che il lavoro non deve essere pagato o pagato molto poco, pochissimo. La velocità di spostamento delle produzioni ha messo a disposizione un enorme esercito di riserva di affamati. Sarebbe interessante verificare con le organizzazioni sindacali se e quali sono le relazioni industriali attualmente esistenti con il gruppo; quali sono le condizioni di lavoro in Tunisia, in Lituania, in Romania e in Cechia, se esistono là organizzazioni sindacali e fermenti operai e, soprattutto, se esiste un coordinamento fra i sindacati dei vari paesi in cui sono ubicate le fabbriche della Marzotto. Ho fatto un tentativo di contattare la responsabile dei tessili vicentina della CGIL, ma non ci sono riuscito al primo colpo e non ho insistito, magari in futuro sarà l'occasione per tornare in argomento. Non so effettivamente cosa stia succedendo in quelle fabbriche, e quindi mi limito ad alcune riflessioni di carattere generale che, credo, accomunano tutte le produzioni che sono state delocalizzate. Nei paesi dell'ex blocco sovietico le organizzazioni sindacali devono scontare il peso di un fardello ideologico che, in nome del movimento operaio, aveva per decenni imbrigliato e represso le rivendicazioni dei lavoratori. Il vuoto lasciato dal crollo dell'Urss è stato riempito dal pensiero unico liberista che ha lasciato poco spazio ad una azione collettiva nelle coscienze dei lavoratori.
C'è inoltre un problema di tempi. Se da un lato, la costruzione della fiducia nell'azione collettiva fra i lavoratori abbisogna di un lento lavoro organizzativo che si sedimenta nel vissuto di una infinità di torti e soprusi piccoli e grandi fino a confluire nel sentimento di solidarietà e di ribellione da parte di soggetti che condividono quotidianamente la medesima condizione di sfruttamento (quella che un tempo si definiva coscienza di classe), dall'altro lato la globalizzazione sta rendendo più veloce lo spostamento delle fabbriche rispetto alla capacità di organizzazione dei lavoratori. E' questa divaricazione dei tempi che rende più debole la resistenza dei lavoratori ai ricatti padronali. Spesso le cronache ci raccontano di fabbriche svanite durante le ferie d'agosto, gli impianti trasferiti quasi clandestinamente, lasciando i capannoni vuoti ed operai smarriti davanti ai cancelli. Credo che la percezione – conscia o inconscia – che accomuna sia i lavoratori derubati che quelli che li rimpiazzeranno nelle fabbriche ricostituite nei paesi di destino è di essere parte di un enorme esercito di riserva che li condanna ad una nuova servitù. Come é potuto succedere? La mia idea è che il duplice processo di robotizzazione e di globalizzazione hanno espropriato definitivamente il lavoratore del controllo sul processo produttivo e della coscienza di sé. Cercherò di spiegarmi meglio: nella fabbrica manifatturiera il prestatore d'opera controllava in qualche modo il processo grazie al suo saper fare e ciò gli dava una certa forza contrattuale; nella successiva fabbrica fordista l'operaio non specializzato assume coscienza dell'alienazione del lavoro; la catena di montaggio aumenta in modo esponenziale il divario fra lavoro e prodotto del lavoro e l'unico modo possibile per recuperare potere contrattuale in fabbrica è reagire a questa espropriazione convogliando la frustrazione e la rabbia che essa produce in nuove forme di lotta e di costante interruzione del processo produttivo. Nasce così uno scontro politico inedito volto a modificare i rapporti di forza all'interno della fabbrica che per un breve periodo risulta vincente. In entrambi i casi, la condizione essenziale che ha permesso l'affermarsi di una coscienza di classe è il luogo stesso: la fabbrica. La nascita e lo sviluppo del movimento operaio si fonda nel fatto di condividere quotidianamente, gomito a gomito, lavoro e condizioni di sfruttamento. E' proprio questo legame, questo tòpos, che il processo di robotizzazione/globalizzazione ha spezzato con la creazione di quella che definirei: la fabbrica virtuale.
La nuova fabbrica virtuale, prima di tutto, ha poco bisogno del saper fare, della presenza cioè di una manodopera specializzata nel territorio perché la robotizzazione del processo produttivo permette di controllarlo in remoto da migliaia di chilometri di distanza. Per la stessa ragione la produzione può rapidamente essere spostata da un luogo ad un altro spezzando così sul nascere le resistenze. Anche la parte più professionalizzata del lavoro si disperde in mille rivoli di consulenze, progetti ed altre collaborazione esterne alla fabbrica che hanno prodotto un tracollo dei prezzi del lavoro. Si potrebbe dire che si è imposta una pratica la cui valenza generale non impedisce che vi siano delle eccezioni: il lavoro – sia esso manuale o intellettuale – non deve essere pagato. Ecco allora che se nel 1968 fu la statua del fondatore a finire per qualche giorno nella polvere, dopo qualche decennio è la fabbrica intera ad essere coperta dalla polvere dell'abbandono e il segnale stradale di pericolo che un tempo avvertiva l'automobilista dell'uscita operai ora sembra minacciare un'uscita di quest'ultimi senza alcuna possibilità di rientro.









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