lunedì 11 marzo 2024

Paesaggio, Non Luoghi e Periferie: Riflessioni per una nuova geografia della storia locale

 

Il 12 dicembre 2023 si è tenuto un incontro con i soci e le socie di sAm e le persone che seguono le nostre attività per fare il punto delle iniziative portate a termine nel corso dell’anno e di quelle in preparazione. Riproponiamo l’intervento fatto in quell’occasione dal nostro socio Walter Cocco che  suggerisce la lettura di tre testi interessanti per riflettere insieme su alcune questioni riguardanti l’attività associativa.

La ragione che ha portato alla nascita di storiAmestre nel 1988 è l’interesse per la storia, in particolare la storia contemporanea del territorio che ne è l’asse portante. Oltre a ciò, essendo un’associazione che vive e pratica nel territorio, ha sviluppato e mantiene una serie di relazioni con altre associazioni ed ha espresso delle scelte e delle battaglie civili sui temi e questioni che di volta in volta si sono presentati. Non ultima la partecipazione alle iniziative di Riprendiamoci la città.

Proprio in riferimento alla presenza attiva sul territorio di molte associazioni si è ritenuto utile ospitare un dibattito all’interno della festa di storiAmestre lo scorso 28 ottobre, con l’obiettivo di avviare un confronto su come ciascuna si pone dinanzi ai problemi territoriali e su quale mission si dà.

A partire da questo confronto ci siamo chiesti quale contributo può dare un’associazione come la nostra alle iniziative o alle battaglie civili che si profilano nel territorio (e – come vedremo in questo intervento – si parla di territorio nel significato più ampio del termine). 

A parte, ovviamente, la partecipazione e la solidarietà su contenuti condivisi – cosa che tempo per tempo ha sempre fatto – cos’altro può fare storiAmestre? Crediamo che il nostro compito sia continuare – e sottolineiamo continuare perché è un aspetto che è sempre stato praticato da sAm – a riflettere sulle trasformazioni del territorio e sui fenomeni che via via si profilano. Trasformazioni e cambiamenti avvenuti in epoche meno recenti, quelli avvenuti negli ultimi decenni e quelli che sono in corso. Per fare questo – come ricordava Marc Bloch – è necessario che la storiografia si apra ad altre discipline1 mutuando da queste strumenti di analisi e chiavi di lettura dei fenomeni che ci aiutino a leggere il passato e capire il presente. 

L’intervento di Walter Cocco propone proprio alcune di queste chiavi di conoscenza e comprensione e si prefigge di offrire una serie di suggestioni che, si spera, siano utili ad aprire un dibattito su questi temi.

di Walter Cocco

L’osservazione e l’analisi delle trasformazioni urbane e del territorio è un argomento che storiAmestre si è posta sin dal suo nascere ed ha affrontato attraverso l’organizzazione di convegni: citiamo a titolo di esempio quello su Territori inondati. Disastri ambientali, risposte sociali, ruolo delle istituzioni del maggio 2011 o il recentissimo Rinnovare via Piave. Le proposte di tre giovani urbanisti del settembre 2023. A ciò si aggiungono la produzione di lavori – anche qui solo per citarne alcuni – pubblicati nei quaderni di storiAmestre come i recenti: Note mestrine. Cose viste, interventi, ricerche di Claudio Pasqual o Mestre è un goniometro. Note, incontri e sopralluoghi di Piero Brunello e, ancora, i lavori pubblicati sui siti storiamestre.it e ilfiumemarzenego.it

Stasera vorrei proseguire su questa traccia invitando alla lettura di alcuni saggi che mi sembrano molto utili per la riflessione sulle trasformazioni urbane. Si tratta di tre libri, i loro autori sono rispettivamente un geografo, un antropologo e un sociologo e i testi sono stati scritti in tempi diversi e quindi riflettono realtà storiche differenti. Ovviamente mi limiterò a proporre soltanto alcuni dei temi trattati in questi testi, quelli che mi hanno colpito maggiormente.

Il primo libro è di Eugenio Turri e si intitola: Semiologia del paesaggio italiano2. Turri è stato un grande geografo veronese, scomparso nel 2005. La prima edizione del libro è uscita nel 1979 e ci parla di quel grande processo di trasformazione avvenuto in Italia nel secondo dopoguerra meglio conosciuto come miracolo economico o, come lo definisce l’autore, la Grande Trasformazione. Egli ci propone una interessantissima analisi dei cambiamenti avvenuti nel Paese attraverso la radicale trasformazione del paesaggio i cui segni distintivi potremmo riassumere in: capannoni, autostrade, casette-villini, automobili. Al momento in cui egli svolge la sua analisi, le trasformazioni iniziate a partire dai primi anni Cinquanta non si sono ancora concluse. O, per meglio dire, si stava chiudendo il lungo ciclo della contestazione e delle lotte sociali che erano seguite alla industrializzazione del Paese [ricordiamo che la sconfitta operaia della Fiat avverrà nel 1980 con la marcia dei quarantamila quadri e impiegati che segnerá il declino della fabbrica fordista e l’inizio di un lento ma inarrestabile processo di deindustrializzazione e di perdita di potere contrattuale della classe operaia della grande industria che aveva dominato il ventennio precedente]. 

Inoltre, quando Turri scrive questo saggio, è già in atto da tempo l’industrializzazione diffusa e la nascita dei distretti di quella che allora veniva chiamata la Terza Italia; anche se non era ancora esaltata come modello, cosa che avverrà nella seconda metà degli anni Ottanta e negli anni Novanta. Nel contempo si stava imponendo nella società il pensiero unico neoliberista di pari passo alla implosione dell’Unione sovietica e dei paesi socialisti oltrecortina.

Il miracolo economico ha trasformato in pochi anni l’Italia da paese arretrato a economia industriale di prima grandezza. Ha modificato, probabilmente in maniera irreversibile, la sua distribuzione demografica con una migrazione interna epocale, da sud verso nord, dai rilievi alle coste, con fenomeni di inurbamento senza precedenti. Ha cambiato antropologicamente modi di vivere secolari. Ha dato l’assalto al territorio senza alcuna regola e senza darsi una classe dirigente che potesse e volesse affrontare i vecchi ed i nuovi squilibri. Il libro descrive questo processo attraverso le cicatrici lasciate al paesaggio. Come dice lo stesso autore nella sua prefazione all’edizione del 1990: “Della Grande Trasformazione il libro non descrive specificamente i mutamenti sociali, politici o economici, ma rispetto a questi e al conseguente modo di vivere, abitare, usare il territorio racconta come è cambiato il paesaggio, come è stata violentata l’immagine del territorio preesistente, di fronte a un volto ritrasformato o sconvolto. […] Riferirci al paesaggio non è certamente l’unico modo di guardare alle trasformazioni di un paese, ma è un modo estremamente carico di significati. Il paesaggio è sempre il risultato definitivo e incancellabile di ogni trasformazione, lo sbocco ultimo, incarnato nel territorio, di tutto un mutamento avvenuto anteriormente: il mutamento sociale, il mutamento dei modi di produrre, dei modi di abitare, trascorrere i giorni, guardare al mondo e alla vita3”.

E ancora: “Nelle pagine del libro largo spazio è dato a ciò che avveniva ‘dietro’ il paesaggio, al riconfigurarsi territoriale dell’Italia in rapporto a un’economia guidata dalla logica capitalistica da una parte, da quella assistenziale e spesso dissipatoria dello stato dall’altra, con lo spazio intermedio lasciato alla piccola ma rampante imprenditorialità di una fitta schiera di italiani che volevano la fabbrica, la fabbrichetta, il capannone. Oggi i capannoni hanno invaso l’Italia e il paesaggio di capannoni sembra aver sommerso altre e meglio congegnate immagini dell’Italia. La crescita dell’economia è stata tale da recuperare in pochi decenni i ritardi dell’industrializzazione che l’Italia aveva accumulato nei confronti di altri paesi inseriti nell’area forte dell’Europa. Essa è passata al di sopra di ogni istanza correttiva imposta a salvaguardia non solo del paesaggio-immagine, ma delle stesse condizioni ambientali. L’Italia brutta derivata da questo processo di travolgente sviluppo economico era anche l’Italia inquinata, dove risultava difficile vivere bene per una larga parte degli italiani, finiti nelle periferie delle grandi città e lungo le strade di irradiazione degli stessi piccoli centri4”.

Turri introduce già un concetto di periferia come condizione di vita dominante della modernità che mi pare interessante sottolineare: 

I mutamenti – come è ampiamente narrato nel libro – hanno avuto nei decenni scorsi intensità e velocità diverse da zona a zona. Ancor oggi il processo di ispessimento edilizio e di trasformazione territoriale, benchè registri non poche novità, ha una distribuzione legata ai grandi centri urbani, alle direttrici principali che li collegano tra loro, alle linee di costa, alle conche intermontane peninsulari, al pedemonte alpino. […] Questa Italia coinvolta dalle intensificazioni modificatorie copre non meno del 30-40% del paese. È un’Italia ormai simile a un’unica periferia, anonima, poco accogliente, poco ordinata, dove però vive la maggior parte degli italiani e dove si vive in quel modo che si rifà a modelli più o meno omologati a livello nazionale. L’Italia dove si produce di più, dove i redditi pro capite sono più elevati e dove gli italiani hanno perduto molti legami con tradizioni e modi di vita passati (anche se ciò non è avvenuto del tutto). È l’Italia che offre di sé una nuova immagine, che resta nella memoria dei visitatori non meno di quella più prestigiosa e reclamizzata fatta di monumenti, di storiche città o di lembi sopravvissuti del paesaggio rurale di un tempo. L’Italia della confusione automobilistica, del traffico intasato, delle case condominiali senza volto, dei supermercati affollati, delle autostrade che sorvolano le case, dei capannoni industriali appiccicati agli edifici residenziali, degli inquinamenti, dei rumori, delle brutture edilizie, della droga, ecc. Un’Italia percepibile dalle autostrade e dalle strade di maggior traffico, che sono le nervature della sua modernità5”.

Un altro aspetto che ho trovato molto interessante è che l’industrializzazione ha modificato così radicalmente il territorio da estinguere intere comunità o, per meglio dire, per scioglierle in nuove realtà accumunate dagli stessi ritmi produttivi, dagli stessi riti di consumo e di svago, dalle stesse contraddizioni, rifiuti e reazioni:

La nuova mappa dell’industria padana si può tracciare a grandi linee abbastanza facilmente: esclude in generale tutta la bassa pianura, questa sorta di downland, di ‘triangolo’ verde o ‘cuore’ della Padania, inserito all’interno delle grandi direttrici pedemontane che corrono ai piedi delle Alpi e degli Appennini, con i loro perni nella città che vi si succedono una dopo l’altra, città medie e piccole, tutte però con una loro implicita vocazione alle attività non meramente agricole, perché eredi di tradizioni artigianali e industriali, specie nel pedemonte alpino. Questo si diparte da Torino e da Ivrea, congloba l’area metropolitana milanese, appoggiandosi, dopo Varese e Como, a Bergamo, Brescia, Verona, continuando su Vicenza, Bassano, sino al Friuli; un’appendice importante si dirama da Treviso verso Padova e Venezia, che rappresenta il capo portuale della sezione lombardo-veneta, così come Genova lo è rispetto alla sezione lombardo-piemontese. Sul lato appenninico la via Emilia rappresenta, con la sua successione di città, l’altra direttrice dell’industrializzazione, tuttavia più tenue e meno vistosa di quella che si snoda lungo il pedemonte alpino, benché con qualche area di fitta concentrazione, come intorno a Bologna e nel Modenese. Questa propagazione industriale si accompagna parallelamente a quella dell’urbanesimo e del popolamento6“.

E utilizza il concetto di teniapolis per descrivere il territorio compreso fra Trieste, Ravenna e Aosta.

Si può parlare per questi segmenti lineari pedemontani e trasversali nel loro insieme come di megalopoli? Geografi a convegno hanno tentato di delinearla, di individuarla. Non sono risultati d’accordo, sia perché non vi sono nella Padania le dimensioni demografiche complessive della megalopoli (atlantica europea, atlantica americana, giapponese), sia perché vi manca quella forza multipolare propria dei grandi organismi megalopolitani, carenza denunciata del resto dalla stessa crescita lineare, sregolata, informe che, se non controllata, potrebbe preludere – come scrive R. Pracchi – a una ‘megalopoli tragica’. Esiste tuttavia, se non come megalopoli, nel significato tipologicamente assodato, come mini-megalopoli, o anche, se si vuole, come teniapolis. Si tratta infatti di un organismo con forti correlazioni interne e che, se ha le sue basi in alcune aree forti, prevaricanti (la metropoli milanese e torinese), sta oggi via via distribuendo la propria forza urbanizzante in altre direzioni, eliminando o attenuando la spinta polarizzatrice originaria. E infatti Torino e Milano sembrano oggi gradatamente perdere terreno – per fenomeni di rigetto – a favore della crescita di altri nodi urbani, tra i quali emergono con una loro forza di gestione Verona e Padova-Venezia da una parte, Bologna e Modena dall’altra, per rapporto soprattutto alla loro produzione di carrefours padani. Grande organismo a forma di triangolo, il vero triangolo padano (la Padania ha tale forma per dono di natura e la città megalopolitana che si sta delineando si adegua alla triangolarità) è tutt’intorno orlato di montagne, spazi di natura, e ha all’interno un cuore verde: la bassa pianura ricca di prati, di campi, di pioppeti, attraversato da un fiume che è l’asse naturale del grande triangolo e lungo il quale si sviluppa un tenue allineamento di centri, molto discontinui, a dimostrazione che il fiume non ha mai avuto un’azione attrattiva molto forte (almeno se si pensa a certi fiumi europei), in quanto mai inseritosi nella territorialità legata all’industrializzazione, per motivi evidenti. Si può parlare di megalopoli in fieri o di teniapolis perché quando si parla di megalopoli non si dovrebbe intendere una ininterrotta fascia abitativa, ma uno spazio che raccoglie fitti aggregati urbani alternati ad aree verdi, boscose, a piccoli centri, satelliti degli organismi maggiori; dovrebbe significare varietà di insediamento, ma anche ed essenzialmente area e spazio privilegiato dall’uomo, tutt’intero spazio per la città, spazio per una società che vive di relazioni fitte, d’intensa vita civile7”.

Ho scelto di riportare ampi passi tratti dalle pagine di Turri perché evidenziano una tendenza, poi confermatasi negli anni successivi, alla omologazione delle condizioni di vita in un territorio molto ampio di cui fanno parte anche i luoghi in cui noi viviamo caratterizzato dal dilagare delle periferie e nei quali, al di là di alcune specificità che ancora resistono, gli avvenimenti che accadono in un luogo condizionano direttamente altri territori non necessariamente contermini. A titolo di esempio cito soltanto il recente scandalo dei pfas in cui un’industria chimica ubicata nella bassa valle dell’Agno nel vicentino ha per anni inquinato la falda freatica colpendo le popolazioni del basso vicentino, del basso veronese, della bassa padovana fino alla costa veneziana.

Il secondo libro si intitola: Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità8 di Marc Augé, antropologo francese recentemente scomparso (2023), che scrisse questo libro nei primi anni Novanta9, quando cioè si stava già profilando in maniera netta il declino dell’industria fordista. Il processo di deindustrializzazione nei paesi occidentali e la delocalizzazione della produzione in altre aree del mondo era già un fenomeno avanzato, si profilava una globalizzazione sotto l’egida di un neoliberismo trionfante che piegava alle sue regole l’intero pianeta senza trovare resistenza. È in questo contesto di esaltazione dell’individualismo e dell’enorme e costante movimento di merci, capitali e persone che ci si avvicina al nuovo millennio e gli individui entrano nella postmodernità. Il libro inizia con un prologo di poche pagine in cui esemplifica in maniera empirica, semplice e chiara tutti i nonluoghi che Monsieur Pierre Dupont attraversa nel viaggio che ha intrapreso per lavoro. Da qui sviluppa il concetto di nonluogo in un saggio breve, ma molto denso e tutt’altro che semplice. 

Il nonluogo proposto da Augé ha avuto ampia risonanza fra gli studiosi di diverse discipline; il concetto definisce quegli spazi in cui migliaia o milioni di individui si muovono senza (necessariamente) entrare in relazione. Fanno parte dei nonluoghi tutte le strutture contemporanee necessarie alla circolazione di persone e di beni (autostrade, svincoli stradali, aeroporti, stazioni ferroviarie e marittime, centri commerciali, outlet, sale d’aspetto, ecc.). Essi si contrappongono ai luoghi antropologici, ossia a quegli spazi identitari, relazionali e storici10. Si tratta, in estrema sintesi, di spazi e servizi in cui l’individuo si muove e agisce in rapporto diretto attraverso un linguaggio e una simbologia che può leggere e capire senza l’intermediazione, né la relazione con altri soggetti; tali spazi sono simili e perciò riconoscibili e fruibili anche a migliaia di chilometri da casa propria. In essi le persone vi transitano, ma nessuno vi abita11. C’è chi ha messo in dubbio che il concetto di nonluogo sia valido per tutte le situazioni e gli spazi indicati da Augé, per esempio per i Centri Commerciali nei quali qualcuno ha intravisto la nascita di nuove forme di socialità. Su questo punto tornerò più avanti, ma lo stesso Augé aveva avvertito che: nella realtà non esistono, nel senso assoluto del termine, né luoghi né nonluoghi. La coppia luogo/nonluogo è uno strumento di misura del grado di socialità e di simbolizzazione di un dato spazio12

nonluoghi per Augé dominano il vivere degli individui del tempo presente, della postmodernità, anzi – come lui la definisce con un neologismo – della surmodernità:

Di questo tempo sovraccarico di avvenimenti che ingombrano il presente e il passato prossimo ciascuno di noi ha o crede di detenerne l’uso. Cosa che, notiamolo, non può che spingerci a essere ancora più avidi di senso. L’allungamento delle aspettative di vita, il passaggio alla coesistenza abituale non di più di tre generazioni, ma di quattro, sono fattori che progressivamente comportano cambiamenti pratici nell’ordinamento della vita sociale. Parallelamente, tali fattori estendono la memoria collettiva, genealogica e storica, moltiplicano per ogni individuo le occasioni in cui egli può avere la sensazione che la sua storia incroci la Storia e che questa interessi quella. Le sue esigenze e le sue delusioni sono legate al rafforzamento di questa sensazione. È dunque attraverso una figura dell’eccesso – l’eccesso di tempo – che si può cominciare a definire la condizione di surmodernità, suggerendo che, a causa delle sue stesse contraddizioni, essa offre un ottimo terreno di osservazione e un oggetto alla ricerca antropologica nel senso pieno del termine. Si potrebbe dire della surmodernità che essa rappresenti il dritto di una medaglia di cui la postmodernità ci ha presentato solo il rovescio – il positivo di un negativo. Dal punto di vista della surmodernità, la difficoltà di pensare il tempo deriva dalla sovrabbondanza di avvenimenti del mondo contemporaneo e non dal crollo di un’idea di progresso compromessa già da molto, almeno nelle forme caricaturali che ne rendono la denuncia particolarmente facile.

Il tema della storia imminente, della storia che ci tallona (quasi immanente a ogni nostra esigenza quotidiana), appare come preliminare a quello del senso o del non-senso della storia: è, infatti, dalla nostra esigenza di com-prendere tutto il presente che deriva la nostra difficoltà di dare un senso al passato prossimo. La domanda positiva di senso che si manifesta presso gli individui delle società contemporanee (di cui l’ideale democratico è senza dubbio un aspetto essenziale) può spiegare, paradossalmente, i fenomeni talvolta interpretati come segni di una crisi del senso e, per esempio, le delusioni di tutti i delusi della Terra: i delusi del socialismo, i delusi del liberalismo, e ben presto anche i delusi del postcomunismo13”.

Ho scelto di riportare questo lungo passo del libro di Augé sulla surmodernità perché forse ci aiuta a capire perché la dilatazione del presente del vivere contemporaneo ha messo in crisi il rapporto con il passato e, in definitiva, il rapporto con la storia.

Chiudo infine con un’ultima immagine della condizione umana contemporanea che si propone come oggetto di studio degli antropologi, ma anche degli storici:

Un mondo in cui si nasce in clinica e si muore in ospedale, in cui si moltiplicano, con modalità lussuose o inumane, i punti di transito e le occupazioni provvisorie (le catene alberghiere e le occupazioni abusive, i club vacanza e i campi profughi, le bidonville destinate al crollo o a una perennità putrefatta), in cui si sviluppa una fitta rete di mezzi di trasporto che sono anche spazi abitati, in cui grandi magazzini, distributori automatici e carte di credito riannodano i gesti di un commercio «muto», un mondo promesso alla individualità solitaria, al passaggio, al provvisorio e all’effimero propone all’antropologo (ma anche a tutti gli altri) un oggetto nuovo del quale conviene misurare le dimensioni inedite prima di chiedersi di quale sguardo sia passibile14”.

Infine il terzo libro che propongo è Agostino Petrillo, La periferia nuova. Disuguaglianza, spazi, città15. Petrillo insegna sociologia urbana al Politecnico di Milano e da qualche anno è impegnato ad osservare le trasformazioni urbane, in particolare delle periferie; trasformazioni che si sono accentuate dopo la crisi del 2008 che ha messo fine all’euforia neoliberista. Con il sopraggiungere della crisi o per meglio dire delle crisi, è diventato sempre più chiaro che il modello neoliberista di globalizzazione ha accentuato le disuguaglianze dappertutto, sia nei paesi dove queste erano già intollerabili e tali da non favorire una crescita economica e sociale, sia nei paesi come quelli dell’Europa occidentale (in forme diverse anche nei paesi oltrecortina) che nei favolosi trent’anni del dopoguerra avevano sviluppato un’economia industriale e dei servizi universali al cittadino (welfare) che avevano prodotto migliori condizioni di vita per le classe popolari che ora subiscono un generale impoverimento. 

La deindustrializzazione e l’abbandono del modello fordista, l’affermarsi della precarizzazione del lavoro e delle prospettive economiche, l’erosione dei servizi pubblici (istruzione e sanità) a favore di analoghi servizi privatizzati, hanno avuto un enorme impatto sulle periferie, in particolare quelle, enormi, della working class fordista. A questo si aggiunga l’epocale fenomeno migratorio dalle regioni più povere o quelle martoriate da conflitti mai spenti verso i paesi più ricchi nella speranza di trovare pane e pace, iniziato nell’ultimo decennio del ‘900, se non un po’ prima

Petrillo introduce concetti interessanti quali la periferizzazione del territorio urbano e i fenomeni di gentrificazione (usando un orribile termine mutuato dall’inglese gentrification in mancanza di una valida alternativa linguistica) dei centri urbani. Petrillo avverte che è il concetto tradizionale di periferia ad essere superato, essa non è lo spazio inurbato che non è ancora diventato città di un tempo e nemmeno la periferia di quartieri working class che, pur nei limiti e le contraddizioni che potevano esserci, erano in rapporto, magari conflittuale ma costante, con la città. Si pensi ai movimenti di lotta per ottenere servizi pubblici (trasporti, scuole, distretti sanitari) che portavano gli abitanti dei quartieri periferici nelle piazze delle città. In qualche modo il modello di lotta rivendicativa sperimentato nella fabbrica fordista veniva esportato anche nei luoghi di abitazione, coinvolgendo anche i soggetti che vivevano con gli operai e le operaie (coniugi, figli studenti ecc.). La progressiva deindustrializzazione ha mutato di segno quegli stessi quartieri: da un lato la vecchia classe operaia, pur continuando a viverci, è invecchiata ed è andata in pensione oppure è stata espulsa e vive di sussidi di disoccupazione, i figli continuano a vivere in casa perché faticano a trovare un lavoro stabile ed alternano periodi di lavoro precario ad altri di disoccupazione. 

In parte la composizione della popolazione si è modificata con l’arrivo di persone immigrate da altri paesi che prima di ottenere permessi di soggiorno devono vivere con lavori irregolari e sottopagati. Il mutamento delle condizioni economiche degli abitanti e la netta riduzione dei servizi pubblici garantiti peggiorano il vivere dei quartieri popolari, anche di quelli in posizioni relativamente vicine ai centri storici. Le nuove povertà portano spesso alla svendita di immobili per insostenibilità del debito e, nel contempo, il peggioramento di qualità della vita svaluta il valore degli immobili stessi rendendo impossibile per i suoi abitanti abbandonarli. Questo è un fenomeno di periferizzazione e, appunto, colpisce anche aree in posizione relativamente privilegiata la cui svalutazione mette in moto la speculazione fondiaria e l’accaparramento da parte di società immobiliari di immobili che, in un secondo momento, li riqualificano offrendoli ad acquirenti solvibili e modificando l’assetto sociale attraverso la progressiva espulsione dei ceti popolari preesistenti. Questo è un fenomeno di gentrificazione, di sostituzione residenziale da parte di ceti con elevato potere d’acquisto che espellono ceti popolari nelle sole zone appetibili.

Vorrei però proporvi altri due esempi di gentrificazione: li riduco ad un’astrazione per semplificare il ragionamento, ma nella realtà si possono trovare molte situazioni come queste:

Il primo esempio riguarda Montse, una signora settantenne, pensionata, che vive da sola a Barcellona in un palazzo del centro storico in prossimità della spiaggia della Barceloneta. Ha una pensione non molto alta, ma sufficiente per le sue necessità, grazie anche al fatto che il contratto d’affitto dell’appartamento in cui abita è basso. È un contratto senza scadenza sottoscritto molti anni fa e non può essere disdetto a meno che l’affittuario non paghi regolarmente il canone e, in virtù di questo contratto, il suo canone non ha subito gli aumenti iperbolici degli affitti della città. I proprietari le avevano offerto in più occasioni delle somme anche importanti perché liberasse l’appartamento, ma lei ha sempre rifiutato perchè non saprebbe dove andare. Montse vive al terzo piano senza ascensore, finchè le gambe glielo permettono rimarrà a casa sua. Nel ripiano dove vive lei è la sola residente, ci sono altri due appartamenti, ma sono affittati a turisti. Da quando Barcellona è diventata una delle mete turistiche più richieste gli appartamenti sono quasi sempre occupati. A volte ci sono persone gentili, famiglie con ragazzi che salutano, non è come avere dei vicini, ma va bene. Il problema è sorto da quando è diventato di moda venire a Barcellona a fare le feste di addio al celibato e al nubilato. Sempre più spesso nei due appartamenti del pianerottolo arrivano gruppi di ragazzi o ragazze già euforici, già su di giri, tutti vestiti con una maglietta uguale con scritte che ricordano il motivo della loro presenza lì. Questa volta sono in sette, vengono da Bologna, tutti portano la maglietta con scritto “Giorgio cosa stai facendo?”L’appartamento è più grande di quello di Montse, ma sette ragazzi sono molti. Arrivano gridando e ridendo sulle scale, lasciano le valigie e se ne vanno per la città. Rientrano alle quattro del mattino, le voci e le risate sulle scale fanno intuire che hanno brindato. Entrano in casa e, dopo un momento di calma apparente, si sente una musica molto ritmata, sempre più forte e risate. Montse per un po’ resiste ma dopo un’ora non ce la fa più e va a suonare il campanello. Dopo un po’ aprono la porta e lei cerca di spiegare che ormai è mattino e lei ha bisogno di riposare. Le risponde Giorgio che parla un po’ di spagnolo e le dice che si scusa, ma è la sua festa, fra qualche giorno si sposa e ha diritto a far festa; in fin dei conti sono soltanto tre giorni e poi se ne vanno. Montse dice che lo capisce, ma che per lui sono solo tre giorni, ma dopo di lui arriverà Francesca o John o Gilbert per altri tre giorni e per lei non c’è pace.

Il secondo esempio riguarda un borgo sulle colline umbre, un bel borgo medievale, ma ancora vivo. Un bel giorno una coppia inglese vi passa per caso in vacanza. Se ne innamora e l’anno successivo torna e decide di comprare casa, ne trovano una non più abitata e la pagano bene. Col tempo fanno fare dei lavori di recupero e la sistemano molto bene rispettando la costruzione originale. Un bel esempio anche per le altre case. Via via arrivano altri inglesi che si innamorano del luogo e comprano altre case e le ristrutturano con gusto. Il luogo piace proprio a molti, un’agenzia si è specializzata ed ha pubblicizzato il borgo in Gran Bretagna, i prezzi continuano a crescere e anche chi ci viveva decide di vendere, con quei prezzi si compra a valle un appartamento nuovo, moderno e rimane loro anche del denaro per il futuro. Ormai nel borgo è più facile sentir parlare inglese che il dialetto del posto, ma il borgo è vivo solo qualche mese all’anno durante l’estate, quando i nuovi proprietari vengono in vacanza. Così anche il bar trattoria, che prima funzionava tutto l’anno, ora apre solo d’estate e poco più. Negli altri mesi avrebbe poca clientela e il proprietario ne ha aperto un altro a valle dove lavora nei mesi morti, lo stesso ha fatto il pizzicagnolo. Ecco così che anche chi non voleva andarsene alla fine comincia a pensare di vendere, almeno finché pagano bene la casa. Paradossalmente ora il borgo è più bello di prima, ma è una città fantasma per buona parte dell’anno.

Fenomeni come quelli qui descritti, in forma più o meno accentuata, si ripetono in tutti i centri storici delle città o dei luoghi ad alta attrazione turistica. Li potremmo far rientrare nella categoria dei nonluoghi

Nel primo esempio per Giorgio ed amici sicuramente sì, è vero che loro stanno socializzando, la loro amicizia è alimentata da questa occasione, ma il luogo è indifferente, potrebbero essere lì come in un’altra parte del mondo, avrebbero contrattato con le stesse modalità la locazione dell’appartamento e le persone che vivono nei paraggi sono loro indifferenti, quando non sono addirittura una molestia perché criticano il loro modo di divertirsi. E per Montse? È casa sua, ma l’assenza di vicini stabili con cui intessere relazioni di vicinato non erode in qualche modo il suo mondo? Una situazione altrettanto spuria si crea anche nel borgo umbro nei mesi in cui riprende vita.

Per chiudere torno sulla questione dei Centri Commerciali perché l’argomento non è nuovo per storiAmestre; il nostro socio Claudio Pasqual già nel dicembre 2016 aveva proposto la costituzione di un gruppo di studio all’interno della nostra associazione che analizzasse il fenomeno e lo fece con una importante riflessione che vi riporto:

la grande distribuzione si è proposta e si propone come volano e catalizzatore di sviluppo. Da un lato essa è fattore di agglutinazione in area suburbana e periurbana di nuovi insediamenti di servizi e residenzialità, dall’altro è motore di profonde modificazioni dei comportamenti sociali e delle forme e modalità di fruizione collettiva degli spazi urbani: lo scivolamento dalla città storica alla cintura periferica dell’agglomerato urbano del baricentro della vita cittadina rispetto ad ambiti di primaria importanza, quali consumi e tempo libero, cui aggiungere lo sbarco recente di altre funzioni, direzionali-amministrative, sanitarie, culturali, turistico-ricettive, persino di residenzialità privata; con un effetto di risucchio verso questi poli dei flussi di persone e del traffico veicolare, della congestione della rete stradale nelle aree, dell’impoverimento del tessuto commerciale e della perdita di tono della vita sociale e culturale del centro cittadino. E i cambiamenti in corso hanno agito a pensarci bene a livelli più profondi ancora, antropologici e sociologici. Si è considerevolmente accresciuta a scapito di altre sfere dell’esperienza umana la dimensione dell’individuo consumatore. Su un altro versante, la fortunata categoria di “non luoghi” (Augé), se si mantiene attuale per altre realtà – stazioni, aeroporti, aree autostradali di servizio -, non appare più adatta a descrivere i centri commerciali. Questi spazi sembrano diventati luoghi di socialità: ci si va anche, spesso soltanto, per sorseggiare un caffè e far quattro chiacchiere ai tavoli del bar con amici e parenti, per il rito dello spritz, anche solamente per passeggiare e guardar le vetrine come nelle strade e piazze della città reale.

Dunque capire la recente evoluzione della nostra città significa anche indagare le più recenti espansioni urbane a vocazione commerciale – direzionale nelle loro ragioni, formazione e sviluppi: gli attori privati e pubblici coinvolti (amministrazioni locali e regionali, soggetti imprenditoriali, organizzazioni sociali), gli interessi in gioco, le dinamiche politiche ed economico-sociali”.

Vorrei aggiungere un altro elemento di riflessione leggendovi il testo di un cartello apposto in vari punti dell’area antistante il Centro Commerciale Le Piramidi, uno dei primi Centri Commerciali aperti in Italia: “È assolutamente VIETATO qualsiasi tipo di volantinaggio all’interno dei parcheggi del centro acquisti Le Piramidi”, ovviamente se non è permesso fuori figuriamoci dentro. È proprietà privata e lì si va per comprare non per fare politica o per diffondere un pensiero o fare delle iniziative. È questo il punto più importante che distingue un Centro Commerciale da una piazza o da un mercato in piazza, la privatizzazione di uno spazio pubblico. Petrillo afferma a questo proposito che: “Lo spazio pubblico è stato frequentemente immolato ai privati e trasformato in un luogo di consumo che del pubblico ha mantenuto solo le parvenze. […] La privatizzazione dello spazio pubblico comporta quindi una riduzione delle funzioni da esso svolte, dato che la proprietà privata si propone prima di tutto di realizzare profitti, economizzare, commercializzare, non ha certo a cuore le funzioni sociali generali, come ad esempio la funzione di socializzazione svolta dallo spazio pubblico o la funzione culturale per non parlare di quella politica. Per questo insieme di motivi gli spazi pubblici privatizzati sono inumani, sterilizzati, privi di possibilità di contatto, ne vengono banditi mendicanti e senza tetto, finiscono per essere sorvegliati e presidiati da guardiani e polizie private16”.

Mi viene da pensare quali sono le differenze fra una persona che andava in città per fare acquisti e una che ora va al Centro Commerciale. Apparentemente nessuna, tuttavia se andava al mercato in città sapeva che poteva incontrare persone che erano lì per comprare come lui/lei, ma potevano essere lì per fare quattro chiacchere, oppure perché attratti da una manifestazione convocata (non necessariamente un corteo, potrebbe essere un concerto o una processione religiosa). Insomma correva il rischio di incrociare altre persone che erano lì con scopi diversi dai suoi che l’avrebbero infastidito o affascinato, ma la cui presenza veniva avvertiva come legittima. Se invece si sposta in un Centro Commerciale (e lo fa quasi esclusivamente con un mezzo privato, è difficile andarci con mezzi pubblici) va lì con l’idea di andare a fare acquisti o, se non ha soldi, di guardare i negozi, magari per pianificare acquisti futuri, ma non si aspetta e non vuole incrociare persone che stanno facendo cose diverse. Intendo dire che troverebbe fuori luogo un comportamento diverso dallo shopping o dal guardare le vetrine. Non tollererebbe persone che lo/la vogliono distrarre dal suo obiettivo. Si tratta di una “gigantesca impresa di privatizzazione del tempo libero e della dimensione dell’incontro materializzatasi nelle cattedrali dei consumi e nei centri commerciali17”. Non è escluso perciò che nei Centri Commerciali avvengano incontri e si crei una certa forma di socialità, tuttavia essa dovrà sottostare ai dettati della proprietà.

NOTE

1 Bloch M., Apologia della storia o mestiere di storico, Einaudi, Torino, 1978 pp. 72, 73

2 Turri E., Semiologia del paesaggio italiano, Longanesi, Milano, 1990 [I Edizione 1979]

3 Ibidem, prefazione p. III.

4 Ibidem, prefazione p. XIV.

5 Ibidem, prefazione p. XVIII.

6 Ibidem, pp. 192-193.

7 Ibidem, pp. 197-198.

8 Augé M., Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Eleuthera, Milano, II edizione 2009 [I edizione 1993].

9 La prima edizione francese è del 1992.

10 “Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi identitario, relazionale e storico definirà un nonluogo”, ibidem, p. 87.

11 Per una efficace sintesi sul concetto, si veda anche wikipedia la voce: nonluogo, ultimo accesso 7/01/2024.

12 Augé M., Non luoghi…, cit. p. 8 prefazione all’edizione del 2009. Si veda anche nel testo originale pp. 77-78: “Luogo e nonluogo sono piuttosto delle polarità sfuggenti: il primo non è mai completamente cancellato e il secondo non si compie mai totalmente; palinsesti in cui si reinscrive incessantemente il gioco misto dell’identità e della relazione”.

13 Ibidem, pp. 44-45.

14 Ibidem, p. 77.

15 Petrillo A., La periferia nuova. Disuguaglianza, spazi, città, Franco Angeli, Milano, I Edizione 2018.

16 Ibidem, p. 132.

17 Ibidem, p. 131.

sabato 9 dicembre 2023

11 settembre 1973, i padroni oggi hanno massacrato Allende

Lo scorso 11 settembre è apparso sul sito di storiAmestre l'articolo qui riproposto. L'ho scritto per ricordare i cinquant'anni della morte di Salvador Allende a seguito del golpe militare che ha distrutto la democrazia cilena ed ha fatto naufragare in molti la speranza di una transizione democratica verso il socialismo. Il Cile, dopo quel giorno, ha vissuto un lungo periodo di terrore. La dittatura guidata da Pinochet ha dominato per anni il paese e l'ha trasformato nel profondo. Ora la dittatura non c'è più e Pinochet è morto, ma quel periodo ha lasciato profonde cicatrici nella società cilena. C.W.


Un giorno di settembre del 1973 le mura di Marghera si riempirono di un manifesto, stampato dal consiglio di fabbrica Montefibre. Un tazebao scritto in rosso su fondo bianco, una immagine che richiamava uno dei murales che erano stati dipinti in tutto il Cile per la campagna elettorale di Unidad Popular nel 1970 con una poesia del poeta operaio Ferruccio Brugnaro, sì proprio il padre dell’attuale sindaco di Venezia: una delle tante nemesi della storia.

La poesia si intitola I padroni hanno massacrato Allende. Qualche giorno prima, esattamente martedì 11 settembre 1973, l’esercito cileno iniziò il golpe contro il governo di Salvador Allende democraticamente eletto nel 1970. Quel giorno il palazzo presidenziale de La Moneda dove Allende si trovava coi suoi ministri, con i funzionari e gli impiegati che vi lavoravano, con la polizia di stanza nel palazzo e con le sue guardie del corpo, venne bombardato dall’aviazione militare e assediato dall’esercito. Allende non si arrese, si difese fino in fondo e quando capì che non c’era più nulla da fare,negoziò l’evacuazione delle persone presenti, ma lui non si consegnò vivo e riservò l’ultima pallottola per sé stesso.

Come ci ricorda Ken Loach nel suo cortometraggio “Chile 11 Settembre”, il golpe militare condivide il medesimo giorno – martedì 11 settembre – con un altro episodio tragico: ventotto anni più tardi, nel 2001, fu sferrato l’attacco alle torri gemelle di New York1. In quest’ultimo evento fu la popolazione statunitense la vittima, nell’attacco a La Moneda del 1973, il governo statunitense non fu soltanto sodale con i carnefici, ma la CIA ebbe un ruolo determinante nell’organizzazione del golpe che affossò la democrazia cilena. 

Le responsabilità nordamericane furono chiare sin da subito, ma la desecretazione (ancora parziale) degli archivi di stato americani, e in particolare il rapporto della commissione Church del Senato degli Stati Uniti – reso pubblico nel 2002 – mostrarono le dirette responsabilità del Presidente Nixon e del segretario di Stato Henry Kissinger2

In questo tragico evento Kissinger incarna due paradossi: nato nel 1923 in Germania in una famiglia ebrea tedesca che dovette espatriare nel 1938 a causa delle persecuzioni antisemite del regime nazista, cinquant’anni dopo fu direttamente implicato nel golpe cileno che obbligò decine di migliaia di cileni a fuggire dal proprio Paese per evitare le persecuzioni. Secondo paradosso: proprio nel 1973 Kissinger venne insignito del Nobel per la pace3. Un uomo che, nel corso di una riunione alla Casa Bianca nel 1970, non esitò a dichiarare: “Non vedo alcuna ragione per cui dobbiamo sedere ed aspettare di vedere che un Paese diventa marxista soltanto perché il suo popolo è irresponsabile”4.

Ma percorriamo a ritroso – seppur sinteticamente – le condizioni che, prima, hanno portato alla vittoria elettorale il fronte di Unidad Popular e, poi, alla sua caduta per mano militare. In questo percorso ci facciamo accompagnare dalle immagini dei manifesti cileni dell’epoca e da quelli italiani contro il golpe militare cileno conservati nell’Archivio Comunale di Venezia (Celestia) e nel Centro di Documentazione della città contemporanea5.

 

Allende e il governo di Unidad Popular

 

(Premere sulle immagini per ingrandire)

Salvador Allende apparteneva ad una famiglia borghese di tradizione massonica e progressista, lui stesso da giovane si iscrisse alla massoneria, ma ben presto dichiarò che gli ideali della massoneria non potevano essere realizzati in una società capitalistica. Attivista politico sin dagli anni dell’università, nel 1933 divenne un leader del nascente Partito socialista cileno e nel 1938, a trent’anni, divenne ministro della sanità nel governo del radicale Pedro Aguirre Cerda a capo di un fronte popolare6. Il governo durò poco e, pur resistendo ad un tentativo di golpe, venne sconfitto nelle successive elezioni politiche nel 1946.

Da allora Allende perseguì sempre l’obiettivo di unire le forze di sinistra e di realizzare una trasformazione socialista della società per via democratica, convincendo la maggioranza della popolazione con la proposta politica e senza scorciatoie violente. Subì sonore sconfitte come nel 1952, ma nel 1958 il suo Fronte di Azione Popolare venne sconfitto dalla destra di Jorge Alessandri per soli trentamila voti. 

La sua idea si stava facendo largo nella società cilena, una società in cui ampie fasce di popolazione vivevano in condizioni di estrema povertà, e le tensioni sociali erano sempre più forti. Se nel 1964 venne sonoramente sconfitto dal democristiano Frei fu anche grazie al massiccio intervento finanziario del governo statunitense a sostegno della Democrazia Cristiana cilena. Ma la spinta al cambiamento che veniva dalla società cilena obbligó lo stesso governo Frei a proporre una prudente riforma agraria e la nazionalizzazione delle industrie estrattive, al tempo tutte nelle mani di compagnie straniere (prevalentemente nordamericane), risarcendo queste ultime. Fu in questo quadro che la Unidad Popular (UP), il nuovo fronte guidato da Allende che univa il Partito Socialista, Il Partito Comunista, il Partito Radicale e il Movimento d’Azione Popolare Unitario (sinistra cristiana) e che aveva il sostegno del sindacato CUT (Central Única de Trabajadores), si presentò alle elezioni del 1970 sostenuta da migliaia di lavoratori e studenti in tutto il paese. 

La campagna elettorale si polarizzò nello scontro fra la destra capeggiata da Jorge Alessandri, la Democrazia Cristiana guidata da Tomic e la UP di Salvador Allende. Molti i giovani artisti fra i militanti di UP, fra essi particolarmente famose divennero le Brigadas Ramona Parra che dipinsero coloratissimi murales in tutto il Paese a sostegno della campagna elettorale di Allende. L’idea era di trasmettere in maniera semplice, ma efficace, le parole d’ordine del programma di UP. I dipinti divennero una icona in tutto il Paese e poi in tutto il mondo, specie dopo il sanguinoso golpe del 1973. 

Le elezioni presidenziali del 4 settembre 1970 assegnarono la vittoria a Salvador Allende con il 36,3% dei voti, ma l’esito elettorale non fu affatto gradito al governo statunitense e “il 15 settembre, il presidente Nixon informò il direttore della Cia, Richard Helms, che un governo allendista non era accettabile per gli Stati Uniti e ordina alla Cia di svolgere un ruolo diretto nell’organizzare un colpo di Stato in Cile per impedire che Allende sin insediasse alla presidenza”7

Il primo tentativo fu mettere a disposizione fondi e fare pressioni perché una parte dei deputati democristiani rifiutassero la ratifica parlamentare della vittoria elettorale di Allende votando il secondo eletto Jorge Alessandri (destra) in spregio ad una prassi costituzionale consolidata. Quest’ultimo poi, per evitare una crisi politica, si sarebbe dimesso e avrebbe indetto nuove elezioni puntando ad una alleanza politica fra destra e Democrazia Cristiana. Il leader democristiano Frei tuttavia si oppose all’idea di trasgredire alla tradizione democratica e il “gambetto Frei” abortì8

Da quel momento l’amministrazione americana puntò all’opzione due, ovvero alla costruzione di una situazione favorevole ad un golpe militare. La prima mossa in questa direzione fu il tentativo di sequestro del comandante delle Forze Armate cilene, generale Scheineder, fedele all’ordine costituzionale. La sua auto venne attaccata da militari cileni e soggetti dell’estrema destra cilena con il supporto logistico e militare di elementi della Cial’assalto si concluse con l’uccisione del generale. La seduta plenaria delle Camere che ratificò la nomina presidenziale di Allende avvenne il 24 ottobre 1970, mentre la massima autorità militare stava agonizzando in ospedale.

Inizia così il governo di Unidad Popular, con tensioni interne ed internazionali, ma anche con un forte sostegno popolare; durante i primi mesi la situazione sembra stabilizzarsi ed i dati economici rilevarono una buona crescita. Il governo intendeva accelerare le riforme promesse, in particolare la nazionalizzazione delle industrie estrattive e la riforma agraria. La nazionalizzazione delle miniere di rame, come abbiamo detto, era già iniziata nel corso della presidenza Frei che aveva acquisito il 51% delle azioni dalle società multinazionali, rimaneva da espropriare il rimanente 49%. L’operazione sottoposta al Congresso nel giugno 1971 trovò il consenso unanime anche da parte dei deputati della destra, il problema era il valore dell’indennizzo da corrispondere e Allende decise di non pagare perché le multinazionali, in oltre mezzo secolo di sfruttamento,avevano guadagnato abbastanza9.

Il governo proseguì il suo lavoro anche sul fronte della riforma agraria con l’assegnazione delle terre ai contadini suscitando il malumore dei latifondisti che si videro espropriare i terreni. 

Ulteriori tensioni emersero dalla decisione di nazionalizzare la compagnia telefonica controllata al 70% dall’americana ITT. Anche in questo caso le divergenze vertevano sulla diversa valutazione dell’indennizzo da corrispondere: un tentativo di trovare un accordo abortì quando venne alla luce che alcuni dirigenti della ITT erano implicati nella “guerra sporca” contro il governo Allende e che la multinazionale aveva destinato diversi milioni a sostegno delle forze che cospiravano contro il governo in carica. La compagnia telefonica venne nazionalizzata scatenando le ire dell’amministrazione Nixon che impose il blocco dei crediti internazionali nei confronti del Cile. 

Il conflitto aperto con le multinazionali, le attività di boicottaggio e le azioni apertamente sediziose di queste nei confronti del governo in carica, furono denunciate da Allende in un discorso che tenne all’Assemblea Generale dell’ONU il 4 dicembre 1972. Allende evidenziò il pericolo che l’attività delle società multinazionali – libere da qualsiasi controllo – rappresentano per le democrazie ed i governi legittimamente eletti a tutte le latitudini. Un discorso che, letto ora dopo aver visto gli effetti della globalizzazione, risulta drammaticamente profetico:

Ci troviamo davanti a un vero scontro frontale tra le grandi corporazioni internazionali e gli Stati. Questi subiscono interferenze nelle decisioni fondamentali, politiche, economiche e militari da parte di organizzazioni mondiali che non dipendono da nessuno Stato. Per le loro attività non rispondono a nessun governo e non sono sottoposte al controllo di nessun parlamento e di nessuna istituzione che rappresenti l’interesse collettivo. In poche parole, la struttura politica del mondo sta per essere sconvolta. Le grandi imprese multinazionali non solo attentano agli interessi dei Paesi in via di sviluppo, ma la loro azione incontrollata e dominatrice agisce anche nei Paesi industrializzati in cui hanno sede. La fiducia in noi stessi, che incrementa la nostra fede nei grandi valori dell’umanità, ci dà la certezza che questi valori dovranno prevalere e non potranno essere distrutti10

Nel contempo Allende denunciò, davanti al consesso internazionale, il clima di guerra civile che viveva il Cile e il ruolo attivo, da parte di figure di primo piano delle multinazionali e dei ceti industriali cileni, di sostegno e finanziamento nelle azioni eversive contro il governo democraticamente eletto: le serrate delle fabbriche, il blocco delle merci con gli scioperi dei camioneros, gli attentati dell’estrema destra e di settori dell’esercito. 

È in questo clima – una società devastata dalla crisi economica e dall’acuirsi della violenza e della polarizzazione della società – che si svolsero le elezioni politiche della primavera del 1973 nelle quali UP aumentò i propri sostenitori arrivando al 43%11. Una parte rilevante della popolazione, nonostante tutto, si strinse attorno al suo Presidente sostenendolo nelle piazze al grido di: Allende, Allende, el pueblo te defiende! 

Il cartello della destra con la Democrazia Cristiana vinse le elezioni, ma i seggi conquistati non permettevano di deporre legalmente il Presidente in carica. A quel punto nell’opposizione il fronte golpista divenne egemone in ampi settori delle forze armate.

 

 

 

 

 

 

 

 



Alla fine della primavera del 1973 aumentarono gli attentati ad opera dell’organizzazione di estrema destra Patria y Libertad e un tentativo di golpe militare fallì, ma la situazione si faceva sempre più ingovernabile e le voci di un golpe militare imminente erano sempre più insistenti. 

Allende decise, nonostante le resistenze di alcune componenti della coalizione che lo sosteneva, di sottoporre a plebiscito il suo mandato dichiarandosi disposto a lasciare l’incarico in caso non avesse raggiunto il sostegno necessario. L’11 settembre, però, la marina dette inizio al golpe a Valparaiso, poi fu la volta dell’aviazione e dell’esercito, infine il corpo di polizia a difesa del palazzo presidenziale assediò l’edificio. 

Divenne chiaro che a capo della rivolta c’erano le massime autorità militari che avevano giurato fedeltà alla costituzione. Queste inviarono una delegazione al Presidente intimandogli di rimettere i poteri nelle mani della giunta militare, in cambio avrebbe avuto a disposizione un aereo per lasciare il Paese assieme alla sua famiglia ed i più stretti collaboratori. In caso contrario il palazzo presidenziale sarebbe stato bombardato. La risposta di Allende fu sprezzante: “ No signori, non mi arrenderò. Dite ai vostri comandanti in capo che non me ne andrò da qui, che non mi consegnerò. Questa è la mia risposta. Non mi tireranno fuori vivo da qui, anche se bombardano la Moneda…”12

Le emittenti radiofoniche che appoggiavano il governo vennero silenziate dai golpisti ed iniziò il bombardamento del palazzo presidenziale. Fu allora che, alle 9.10, Allende parlò per l’ultima volta al Paese tramite l’ultima emittente ancora in funzione, Radio Magallanes:

Compatrioti, questa è l'ultima occasione che ho per rivolgermi a voi. L'Aviazione ha bombardato le antenne di radio Portales e radio Corporación. Nelle mie parole non c'è amarezza ma delusione, e saranno queste il castigo morale per coloro che hanno tradito il giuramento che hanno fatto [interferenza]… soldati del Cile, comandanti in capo effettivi, l'ammiraglio Merino che si è autodesignato, più il signor Mendoza, generale vile che solo ieri aveva manifestato la sua fedeltà e lealtà al governo, anche lui si è nominato direttore generale dei carabinieri. Alla luce di questi fatti, non mi resta che dire ai lavoratori: io non rinuncerò! Giunto a un momento storico, pagherò con la vita la lealtà del popolo. E vi dico che ho la certezza che il seme che consegneremo alla degna coscienza di migliaia e migliaia di cileni non potrà essere totalmente distrutto.

Hanno la forza, potranno abbatterci. Ma i processi sociali non si fermano né con il crimine né con la forza. La storia è nostra e la fanno i popoli.

Lavoratori della mia patria, vi voglio ringraziare per la lealtà che avete sempre avuto. La fiducia che avete riposto in un uomo che fu solo interprete di grandi aspirazioni di giustizia. Che si impegnò a rispettare la Costituzione e la legge, e mantenne la parola. In questo momento definitivo, l'ultimo nel quale mi posso rivolgere a voi, desidero che impariate la lezione. Il capitalismo straniero, l'imperialismo, unito alla reazione, creò il clima perché le Forze armate rompessero la loro tradizione, quella insegnata da Schneider e riaffermata dal comandante Araya, vittime della stessa classe sociale che oggi starà a casa sua sperando di riconquistare per mano altrui il potere di continuare a difendere le proprie tenute e i propri privilegi.

Mi rivolgo, soprattutto, all'umile donna della nostra terra, alla contadina che ha creduto in noi, all'operaia che ha lavorato di più, alla madre che ha saputo della nostra preoccupazione per i bambini. Mi rivolgo ai professionisti della patria, ai professionisti patrioti, a quelli che alcuni giorni fa hanno lavorato contro la sedizione promossa dai collegi professionali, collegi di classe perché difendono i vantaggi che una società capitalista concede solo a pochi. Mi rivolgo alla gioventù, a quelli che hanno cantato e trasmesso la loro allegria e il loro spirito di lotta. Mi rivolgo all'uomo del Cile, all'operaio, al contadino, all'intellettuale, a quelli che saranno perseguitati… perché nel nostro Paese il fascismo era già da tempo presente, negli attentati terroristici, facendo saltare in aria i ponti, tagliando le linee ferroviarie, distruggendo gli oleodotti e i gasdotti, con il silenzio di coloro che avevano l'obbligo di intervenire: ma erano coinvolti. La storia li giudicherà.

Sicuramente radio Magallanes sarà messa a tacere, e la mia tranquilla voce metallica non vi arriverà. Non importa. Continuerete a sentirla. Sarò sempre con voi. Perlomeno il ricordo di me sarà quello di un uomo degno che è stato leale alla lealtà dei lavoratori. 

Il popolo deve difendersi, ma non sacrificarsi. Il popolo non deve lasciarsi abbattere o crivellare, ma non può neanche farsi umiliare.

Lavoratori della mia patria, ho fede nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno questo momento grigio e amaro, in cui il tradimento ha la pretesa di imporsi. Continuate a esser certi che, più presto che tardi, riapriranno le grandi strade per le quali passerà l'uomo libero, per costruire una società migliore.

Viva il Cile! Viva il popolo! Viva i lavoratori! Queste sono le mie ultime parole e sono certo che il mio sacrificio non sarà inutile. Sono certo che, perlomeno, sarà una lezione morale che castigherà la slealtà, la vigliaccheria e il tradimento”13.

Come sopra ricordato, quando si rese conto che non c’era più nulla da fare, Allende negoziò l’uscita delle persone presenti all’interno del palazzo, ma lui non si consegnò preferendo morire da uomo libero e da Presidente in carica. 

Nel Paese i militari iniziarono una feroce repressione, per chi era abbastanza adulto nel 1973 le immagini televisive delle migliaia di persone imprigionate nello stadio di Santiago sono un ricordo indelebile. Poi iniziarono ad arrivare i resoconti delle morti eccellenti, delle persone portate via dalle proprie case di notte e mai più tornate, delle carovane della morte e infine dei voli della morte con cui migliaia di oppositori furono lanciati dagli aerei in mare e scomparvero. E ancora le decine di migliaia di esuli che riuscirono a sfuggire alle torture e alla morte abbandonando il proprio paese. In molti trovarono rifugio in Europa. 

Molti trovarono rifugio e solidarietà nel nostro Paese, uno di questi Rodrigo Díaz si stabilì a Marghera nel 1976 e la sua testimonianza è stata pubblicata da storiAmestre14

Nei giorni del golpe il gruppo musicale degli Inti Illimani, un gruppo molto legato a Unidad Popular, era in tounée in Italia; i suoi componenti chiesero ed ottennero asilo politico e rimasero in Italia per tutta la durata della dittatura. Le loro canzoni divennero sia la testimonianza dei sogni, delle speranze di Unidad Popular e della figura di Allende che la denuncia dei massacri perpetrati dalla giunta di Pinochet. È per me indimenticabile, allora adolescente che mi affacciavo alla politica, il grande concerto all’arena di Verona del settembre 1975, un vero e proprio battesimo alla militanza.

Il golpe ebbe drammatiche conseguenze non solo sulla vita di molti cileni, ma anche sugli equilibri internazionali: basti ricordare che l’Argentina seguì la stessa sorte agli inizi del 1976confermando una tendenza dell’amministrazione statunitense a favorire l’instaurazione di regimi reazionari e violenti. Per quanto riguarda l’Europa e in particolare l’Italia, i fatti del Cile influenzarono pesantemente le scelte politiche della sinistra. Il segretario del PCI, Enrico Berlinguer, scrisse tre articoli sulla rivista Rinascita fra la fine di settembre e i primi di ottobre 197315 nei quali indicava che l’esperienza cilena insegnava che nessun cambiamento sociale sarebbe stato possibile senza l’accordo fra le grandi forze popolari e democratiche, lanciando così la politica del “compromesso storico”.

Al di là del giudizio storico che si può dare su quella scelta politica, non vi è dubbio che essa abbia segnato – nel bene e nel male – il dibattito politico all’interno della sinistra italiana per tutta la decade degli anni Settanta, generando dirette conseguenze sugli equilibri politici italiani ed europei con la crescita dell’opzione eurocomunista in Francia e Spagna. 

Per quanto riguarda la mia generazione, che in quegli anni si affacciava all’impegno politico, fu occasione per apprendere i primi rudimenti di spagnolo con i testi delle canzoni degli Inti Illimani. Cantavamo El pueblo unido jamás será vencido e – forse incoscientemente – interiorizzammo che il nostro sogno di una società più giusta stava morendo nelle immagini dello stadio di Santiago piene di giovani poco più grandi che in molti casi furono desaparecidos.

In conclusione alcuni manifesti in sostegno della causa cilena e, in particolare, quello disegnato da Emilio Vedova, in omaggio a Salvador Allende e Pablo Neruda.

 

 

 

 

 

 

 

 

 











FONTI CITATE O PRESENTI NELL’ARTICOLO

A) MANIFESTI

I manifesti presentati nell’articolo sono stati digitalizzati e raccolti nel CD-Rom Affissione Consentita 40 anni di manifesti dall’Italia e dal mondo pubblicato nel 2007 da storiAmestre, gli originali sono depositati negli archivi sotto descritti. In ordine di apparizione:

  1. I padroni oggi hanno massacrato Allende. Poesia di Ferruccio Brugnaro, Consiglio di fabbrica Montefibre, Serigrafato in proprio Sip- San Polo 2416 – Venezia, 1973, Archivio Giorgio Sarto – Centro di Documentazione della città contemporanea;

  2. I.C. Izquierda Cristiana a la CUT!!, Manifesto cileno: sinistra cristiana, Tip. Quimandù lida, 1971, Archivio Comunale di Venezia la Celestia;

  3. Brigadas Ramona Parra Museo de Arte Contemporaneo, Manifesto cileno: gioventù comunista museo di arte contemporanea, 1971, Archivio Comunale di Venezia la Celestia;

  4. Cobre Chileno, Manifesto cileno: nazionalizzazione del rame cileno, Litografia Fernandez, 1972, Archivio Comunale di Venezia la Celestia;

  5. No a la sedicion, Manifesto cileno: contro la violenza, 1971, Archivio Comunale di Venezia la Celestia;

  6. No a la guerra civil, Manifesto cileno: Contro la guerra civile, 1972, Archivio Comunale di Venezia la Celestia;

  7. Per la resistenza cilena, Manifesto Organizzazione comunista m-l, Tip. Fronte unito, 1973, Archivio Giorgio Sarto – Centro di Documentazione della città contemporanea;

  8. Chi brucia i libri tortura il popolo. Libertà al Cile, Manifesto Biennale di Venezia, Tip. ENIT, 1974, Archivio Maurizio Antonello – Centro di Documentazione della città contemporanea;

  9. Neruda Allende, Manifesto Biennale di Venezia, Omaggio del pittore Emilio Vedova a Salvador Allende e Pablo Neruda, 1974, Archivio Maurizio Antonello – Centro di Documentazione della città contemporanea;

B) FILMATI/REGISTRAZIONI AUDIO

C) TESTI

  • Verdugo Patricia, Salvador Allende. Anatomia di un complotto organizzato dalla Cia, Baldini Castoldi Dalai Ed., Milano, 2003;

  • Cover Action in Chile: 1963 – 1973, Report Church Committee, Washington, 1975; 

  • Biacchessi Daniele et al., Cile 11 settembre 1973, F. Angeli Ed., Milano, 2003;

  • Berlinguer Enrico, Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile, 3 articoli pubblicati su Rinascita rispettivamente nel n. 38 del 28/09/73 (Imperialismo e coesistenza alla luce dei fatti cileni), n. 39 del 5/10/73 (Via democratica e violenza reazionaria) e n. 40 del 12/10/73 (Alleanze sociali e schieramenti politici);

  • Feltrin Lorenzo, Da San Miguel alla Cita. Intervista a Rodrigo Díaz, esule cileno in Italia dal 1974 e residente a Marghera dal 1976 pubblicata il 01/02/2022, https://storiamestre.it/2022/02/santiago-marghera/

 

NOTE

1 Loach Ken, September,11 1973, cortometraggio realizzato nel 2002 nell’anniversario dell’attacco alle Torri Gemelle e nel 29 anniversario del golpe cileno, reperibile in rete in vari siti, anche in italiano, ultima visione 30/07/2023 https://archive.org/details/CileLaStrageDiPinochet . Il cortometraggio parla di Pablo, un profugo cileno che vive a Londra, che nel primo anniversario dell’attacco terroristico alle Torri Gemelle di New York, scrive ai famigliari delle vittime per esprimere la sua vicinanza al loro dolore e per raccontare loro quanto accadde in Cile il martedì 11 settembre di 29 anni prima.

2 Cover Action in Chile: 1963 – 1973, Report Church Committee, Washington 1975. Per una attenta guida alla lettura di questo documento e dei documenti desecretati dall’amministrazione statunitense sull’argomento si veda Verdugo Patricia, Salvador Allende. Anatomia di un complotto organizzato dalla Cia, Baldini Castoldi Dalai Ed., Milano, 2003. 

3 Dopo la desecretazione, seppur parziale, disposta dal presidente Clinton degli archivi delle diverse agenzie sulla questione cilena che hanno portato alla luce le responsabilità di Nixon e di Kissinger nel golpe cileno è iniziata una campagna per il ritiro del premio Nobel per la pace concesso a Kissinger il 16 ottobre 1973, a poco più di un mese dalla morte di Allende.

4 Verdugo, op. cit. p. 56.

5 Tutti i manifesti qui riprodotti sono stati digitalizzati e raccolti nel CD Rom Affissione Consentita 40 anni di manifesti dall’Italia e dal Mondo, edito da storiAmestre nel 2007.

6 La parola d’ordine di Pedro Aguirre Cerda fu Pane, tetto e cappotto; sostenuto da un fronte popolare si insediò a La Moneda nel 1938. L’esperienza dell’unità delle sinistre durò soltanto tre anni, tuttavia seppe resistere ad un tentativo di colpo di stato militare intentato dall’ex dittatore generale Ibanez, golpe noto come ariostazo, dal nome del generale che si pose alla guida dei ribelli Ariosto Herrera. Nel corso del golpe i militari offrirono al Presidente una via di fuga, ma questi rispose: “Il Presidente della Repubblica non si sottomette ad un ribelle. Di qui non mi tireranno fuori se non morto. Il mio dovere è di morire difendendo il mandato affidatomi dal popolo”. L’11 settembre 1973 Allende rifiutò, con parole non molto diverse, una analoga proposta fatta dai militari golpisti. (cfr. Verdugo, op. cit., p. 184 – 185 ).

7 Rapporto Church cit. in Verdugo, op. cit. p. 63.

8 L’operazione venne denominata “gambetto Frei”. “Nel gioco degli scacchi, gambetto è la tattica di sacrificare uno o due pezzi all’inizio per guadagnare poi una posizione favorevole”., cfr. Verdugo, op. cit. p. 67.

9 Verdugo, op. cit. p. 103.

10 Cfr. film di Patricio Guzmán, Salvador Allende, dvd, Ed. Feltrinelli, 2004. Il discorso è reperibile anche su Youtube Discorso di Salvador Allende all’ONU (1972).

11 Le elezioni parlamentari del 4 marzo 1973, svoltesi in un clima di forti tensioni, videro affermarsi l’allenza Code (Partito democristiano e Partito Nazionale di destra) con il sostegno finanziario diretto ed indiretto degli Stati Uniti. L’alleanza raggiunse il 55% dei voti, ma non si tradusse in un numero sufficiente di deputati e senatori per approvare la destituzione legale del presidente. D’altro canto, uno scontro così duro e polarizzato aveva fatto crescere i consensi a Unidad Popular al 43% (cfr. Verdugo, op. cit., p. 128).

12 Verdugo, op. cit., p. 184. Secondo alcune testimonianze, prima dell’incontro con gli addetti militari, la proposta era stata fatta telefonicamente dall’ammiraglio Carvajal e Allende rispose in maniera secca: “Ma cosa avete creduto, traditori merda! …. Mettetevelo nel culo il vostro aereo! – Lei sta parlando con il Presidente della Repubblica!… E il Presidente eletto dal popolo non si arrende!” (cfr. Verdugo, op. cit., p. 183).

13 Verdugo, op.cit., pp. 186 e segg.

14 Feltrin Lorenzo, Da San Miguel alla Cita. Intervista a Rodrigo Díaz, esule cileno in Italia dal 1974 e residente a Marghera dal 1976 pubblicata il 01/02/2022, https://storiamestre.it/2022/02/santiago-marghera/.

15 Gli articoli con il titolo generale di Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile furono pubblicati rispettivamente nel n. 38 del 28/09/73 (Imperialismo e coesistenza alla luce dei fatti cileni), n. 39 del 5/10/73 (Via democratica e violenza reazionaria) e n. 40 del 12/10/73 (Alleanze sociali e schieramenti politici).