Riprendo qui un articolo di Luca Lenzini pubblicato da Il Manifesto nel marzo 2015 per ricordare la recente scomparsa di Renato Solmi, l'intellettuale che ha fatto conoscere in Italia l'opera di Walter Benjamin. Riprendere lo studio del concetto di storia di Benjamin vuol dire anche conoscere più a fondo l'opera degli studiosi del suo pensiero e l'opera di Solmi è un passaggio necessario che dovrò affrontare.
Renato Solmi, l'elegante stile critico che si fa militanza di Luca Lenzini, Il Manifesto, 26/03/2015
Addii. La scomparsa di Renato Solmi. Traduttore di Beniamin e Adorno, lavorò per anni a Einaudo. Il lungo sodalizio con Fortini e Ranchetti.
Nella Prefazione a Autobiografia
documentaria, il volume che raccoglie i suoi scritti di oltre mezzo
secolo (Quodlibet, 2007), così scriveva Renato Solmi: «Ho più che
mai l’impressione (…) che questo libro, che è, se così si può
dire, un sommario dettagliato della mia vita, sia tutto rivolto verso
il passato, e non posso fare a meno di temere che essa sia destinata
a prevalere su qualsiasi altra agli occhi degli esponenti della nuova
generazione che si battono con tanto ardore e con tanta fermezza
sulla linea più avanzata del fronte che separa il passato dal
futuro, o, se si preferisce, la salvezza dalla catastrofe». Ma a chi
abbia presenti le ottocento e passa pagine del libro, l’impressione
dell’autore risulta infondata, anzi fuorviante: perché, al
contrario, la lezione dell’Autobiografia di Solmi — scomparso
ieri — era ed è quella di un pensatore la cui bussola è stata
sempre orientata verso ciò che, nel presente, si schiude a nuovi
sviluppi, al di fuori di schemi dottrinari o teleologici. E già il
sommario dell’antologia del 2007 dispiegava in piena luce
l’amplissimo orizzonte entro cui si è mossa, con straordinaria
mobilità intellettuale, la riflessione di Solmi: dai primi lavori su
Jaeger, Snell, Cassirer, De Martino degli anni Cinquanta, ai
contributi su «Discussioni», la rivista realizzata con Insolera,
Amodio, Ranchetti, Fortini, i Guiducci, tra il ’49 e il ’53, agli
interventi del redattore Einaudi nel periodo più fecondo della casa
editrice, fino a quelli su «Quaderni Piacentini», i pezzi sulla
scuola e sui movimenti degli anni ’60/’70, sul pacifismo.
A partire da quei testi si può bene
intendere come l’opera di Solmi non sia in alcun modo
classificabile come quella di uno «specialista», anche se sul
terreno volta a volta affrontato, dalla filosofia in senso stretto
alla storia della cultura, dall’antropologia alla sociologia, la
storia o la critica letteraria, pochi specialisti – oggi meno che
mai — ne sarebbero all’altezza. Il carattere militante, e perciò
critico, del pensiero di Solmi, ostile per natura ai dogmi e agli
shematismi, è il filo che ne tiene saldamente insieme l’opera, e
non meno caratteristico è il suo stile intellettuale, tanto più
garbato, raziocinante e talvolta persino cerimonioso nell’argomentare
i suoi dissensi, quanto più si rivela radicale e indocile alle
pretese della doxa, fosse pure quella della parte politica per cui si
è sempre schierato, con preveggente impegno pacifista e altrettanto
rigore morale.
Tutto questo, mentre spiega la sua
emarginazione rispetto ai sentieri della cultura ufficiale, sia dei
partiti sia accademica, pone la sua opera esattamente, per usare le
sue parole, «sulla linea più avanzata del fronte che separa il
passato dal futuro». Ed è di una tale lezione, nel nostro tempo di
filosofi da festival e microspecialisti, segnato dal conformismo (non
meno tale per vestirsi di provocazione modaiola o da lezione di
disincanto), che c’è bisogno, ora che lui ci ha lasciato. Chi
saprà misurarsi con i saggi introduttivi all’opera di Adorno o
Benjamin, scritti tra il 1953 ed il ’59, potrà rendersi conto di
quali calibrate rimozioni è capace la cultura del nostro paese: quel
che è stato rimosso, beninteso, non sono Adorno o Benjamin, che anzi
sono stati ampiamente pubblicati e fatti oggetto persino (non senza
ambiguità) di culto, ma la prospettiva e lo spessore di storia e
cultura entro cui un lettore come Solmi si poneva: quella di una
traduzione nel senso più vero (incluso, ovviamente, il più
letterale, in cui eccelleva), capace ogni volta di fare i conti con
la società che si andava sviluppando nelle tumultuose ondate di
quella «modernizzazione», le cui contraddizioni ed i cui limiti si
sono poi rivelati tragicamente nel corso degli anni seguenti, e
ancora oggi scontiamo.
C’è un testo del 1985 in cui
rammentando l’autunno del ’68, Solmi annotava: «Ricordo una
mattina, in tram – e non era un’esperienza unica o eccezionale in
quei giorni, — gli studenti e le studentesse che andavano a scuola,
e che si raccontavano reciprocamente quel che era accaduto nelle
rispettive scuole e in quei giorni, con un’immediatezza, una
spontaneità, come se tutte le barriere fossero cadute: c’era
un’esperienza comune di cui si poteva parlare». Proseguiva poi,
con un rilievo consonante con le osservazioni di De Certeau sulla
«presa della parola»: «Non è durato molto, forse, nel senso che
ben presto si sono aggiunti anche altri elementi che hanno alterato o
adulterato la purezza originaria del movimento. Questa purezza si
manifestava, fra l’altro nella lingua, nel linguaggio, nel modo di
esprimersi e di comunicare degli studenti». Lo ricordiamo così,
mentre guarda ai giovani e a quanto è in movimento; e con i versi
che gli dedicò Franco Fortini, che portano un’altra data cruciale,
quella del 1956 (Ventesimo Congresso): «Una mattina di febbraio/
grigio gentile ghiaccio/ nello sventolio/ delle edicole, balzo e
riso,/ delizioso fulmine, le mani gli occhi dell’amico/ convulso,
con l’articolo/ mangiato dal vento: Il vento/ — diceva ridendo
fra i denti –/ il vento della storia, che ci precipita!»
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