Intervento al convegno Territori inondati organizzato da storiAmestre del 27/05/2011.
(Post modificato il 19/03/2020)
Dopo molto tempo ho deciso di pubblicare sul sito il mio intervento al convegno Territori inondati organizzato da storiAmestre il 27/05/2011. Perchè? Perchè storiAmestre aveva cominciato ben prima ad occuparsi della questione e ancor oggi se ne occupa producendo documentazione, convegni, azione civile e perché c'entra molto la storia (magari non la storia del movimento operaio in senso stretto, ma certamente sì la storia del territorio e la memoria che se ne conserva). C'entra anche il ricordo di una cara amica che ora non c'è più, Maria Luciana Granzotto, che per organizzare quel convegno si era spesa molto e mi ha convinto a parteciparvi con il testo che segue.
Vicenza non è Macondo.
Piovve per quattro anni, undici mesi e due giorni. Ci furono epoche di pioviscolo durante le quali tutti si imposero i loro vestiti di pontificale e si composero una faccia da convalescente per festeggiare la spiovuta, ma ben presto si abituarono a interpretare le pause come annunci di rincrudimento. Si disselciava il cielo con tempeste di strepito, e il nord mandava uragani che sguarnirono tetti e sfondarono pareti, e sradicarono le ultime ceppate piantagioni. […] Il male era che la pioggia scombinava ogni cosa, e nelle macchine più aride spuntavano fiori tra gli ingranaggi se non venivano lubrificati ogni tre giorni, e si ossidavano i fili dei broccati e nascevano filetti di zafferano sulla roba bagnata. L'atmosfera era così umida che i pesci sarebbero potuti entrare dalle porte ed uscire dalle finestre, nuotando nell'aria delle stanze.
Ho voluto iniziare con questo passo tratto da Cent'anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez nel quale si descrive una Macondo, luogo immaginario in cui si dipana la saga dei Buendia, afflitta da una lunga, interminabile e surreale stagione delle piogge. Ma perché direte voi? Vicenza non è certo Macondo, non è un abitato della sponda meridionale del Caribe prodotto della fervida fantasia narrativa di uno dei grandi scrittori del Novecento, ma una città reale del nord est italiano. Essa è stretta fra le prealpi, le ultime propaggini dei Lessini e la pianura padano veneta con un clima temperato e non quello sub-tropicale di Macondo. Tuttavia, quando la pioggia continua a cadere senza requie per dei giorni e l'acqua invade le strade che si convertono in fiumi, il paesaggio assume improvvisamente un aspetto irreale – ancorché maledettamente reale – quanto le immagini evocate da Gabo. Per giorni rimane nell'aria quel tanfo di umidità, di muffa e fogna che sembra non voler andarsene più e nei volti delle persone appaiono quegli sguardi straniti e sgomenti dalla precarietà della tregua concessa dalla pioggia.
Come dicevo, il territorio vicentino è delimitato a nord dall'altopiano di Asiago e dal massiccio del Grappa, dalla Valsugana bagnata dal fiume Brenta, a nord ovest dalla Valdastico, dal Monte Pasubio, ed ancor più ad Ovest dalle valli dell’Agno e del Chiampo che scendono dalle Piccole Dolomiti e dai Monti Lessini, le cui ultime propaggini giungono sino alla periferia della città. A sud si ergono i colli berici, a est/sud-est si apre infine la pianura. I due fiumi che bagnano Vicenza sono il Bacchiglione ed il suo affluente, il Retrone, che unificano il loro corso appena fuori città. Appena a nord di Vicenza (Villaverla - Dueville) la falda acquifera riaffiora in superficie in un sistema di risorgive che danno vita al Bacchiglioncello che – nel confluire con il bacino del Timonchio/Leogra (corsi d'acqua che hanno origine rispettivamente dal Monte Novegno e dal Monte Pasubio) diventa Bacchiglione poco prima di entrare a Vicenza. Esso prosegue verso sud est, attraversa Padova per poi confluire nel Brenta prima di finire in mare.
Vediamo cosa ci dice Wikipedia a proposito del Bacchiglione:
“Il corso totale del fiume è lungo circa 118 km ed ha un bacino di raccolta che si estende per 1400 km². La portata media del Bacchiglione presso Padova è di circa 30 m³/sec e si presenta sufficientemente copiosa anche in estate grazie all'apporto sorgivo di parte del bacino. Il fiume è comunque soggetto a piene autunnali e primaverili, talvolta anche disastrose.”
Ma cos'è successo il primo novembre 2010?
Quel giorno io non ero a Vicenza, sono rientrato soltanto nella notte del primo novembre a disastro consumato e, fortunatamente, il palazzo dove abito è stato graziato dall'allagamento. Il mio primo impatto con la calamità è avvenuto per radio; stavamo tornando da Trieste quando sentiamo la notizia che il sindaco di Vicenza ha decretato la chiusura delle scuole cittadine per l'indomani a causa dell'alluvione che ha colpito la città; a seguire giunse la notizia che l'autostrada A4 era chiusa fra Vicenza e Verona perché inondata e che erano interrotte tutte le vie di comunicazione fra Milano e Venezia. I notiziari raccomandavano a tutti gli automobilisti che da est dovevano raggiungere Milano di seguire la Padova/Bologna e da lì proseguire verso Milano. Restammo increduli davanti a queste notizie ma, man mano che viaggiavamo verso casa, la lunga colonna di auto che si formava per lo svincolo per Bologna e il reiterarsi degli annunci via radio ci convinse della gravità della situazione. A casa ci arrivammo molto tardi, quando a Vicenza aveva già smesso di piovere; in casa e nelle immediate vicinanze tutto sembrava normale e decidemmo di attendere l'indomani per capire cosa realmente fosse successo in città.
Perciò il mio racconto di oggi sulla giornata di ognissanti si fonda, oltre che sulle cronache del quotidiano locale, sulla testimonianza di due persone direttamente e pesantemente colpite dall'inondazione. Si tratta di due sorelle: una cara amica (Francesca) e la sorella (Graziella detta Lella) che hanno vissuto l'alluvione in due punti opposti della città, ma entrambe fra le zone più colpite dal maltempo.
I genitori di Francesca vivono in Viale Trento e la loro casa è stata sommersa dall'acqua e dal fango rimanendo confinati al primo piano per dei giorni. Francesca è giunta a casa dei genitori già alle 6 di quel mattino e con l'aiuto dell'altra sorella e - nei giorni successivi – anche dei volontari ha liberato la casa degli anziani genitori dalle acque limacciose.
Lella invece gestisce con il marito Piero, che partecipa all’intervista, un salone di parrucchiere in Corso Padova, dalla parte opposta della città, proprio vicino al Ponte degli Angeli - da sempre uno dei punti critici della città - dove il fiume ha rotto alle 7,30 ed ha invaso le strade e le case. Lella ha dovuto occuparsi del proprio negozio aiutata da altri famigliari ed amici, oltre che dai volontari.
Sono state proprio alcune delle cose raccontate dalle intervistate che mi hanno indotto a riflettere sul tema della memoria. Sulla memoria e sulla rimozione del ricordo dei disastri del passato più o meno recente.
L'autunno del 2010 è stata una lunga, lunghissima stagione di piogge (forse potremmo considerare tutto il 2010 come un anno particolarmente piovoso). Le settimane precedenti l'alluvione avevano visto forti precipitazioni ed il terreno era già fradicio, ma poi si era abbassata la temperatura e la pioggia si era trasformata in neve nei rilievi prealpini. Nel ponte del primo novembre la pioggia si fa battente, un diluvio che registra 530 millimetri di pioggia in 48 ore nella provincia di Vicenza. Le precipitazioni sono particolarmente intense a nord delle valli del Leogra, dell'Agno e del Chiampo. All'ondata di maltempo si aggiunge lo scirocco. Il vento umido e caldo ha portato ad un improvviso innalzamento delle temperature anche in montagna provocando lo scioglimento delle nevi. I corsi d'acqua già gonfi di pioggia aumentano la portata oltre i livelli di guardia. Al tempo stesso, a valle, lo scirocco rendeva più difficile il deflusso in mare delle acque con evidenti conseguenze sui già rischiosi livelli dei fiumi. E' questo effetto combinato di fattori meteorologici a provocare l'alluvione. Così di primissimo mattino le acque del Bacchiglione escono dall'alveo appena a nord di Vicenza in località Lobbia e Rettorgole. Alle 7,30 il fiume esonda al Ponte degli Angeli e a Ponte Pusterla, a Contra' Chioare (nell'ansa situata appena dopo ponte Pusterla) l'acqua sfonda il muretto di contenimento ed invade la zona di S. Maria di Araceli, il Parco Querini, i quartieri di San Marco, San Pietro e Santa Lucia, Corso Padova, l'Isola, i Carmini, entra anche nel Teatro Olimpico (fortunatamente senza compromettere il monumento). Queste sono le zone colpite nel centro storico della città, ma l'acqua inonda anche altri quartieri: Viale Trento, Viale Diaz e Viale Ferrarin nella zone nord ovest della città, Viale G.G. Trissino e la zona Stadio ad est. Tutto il sistema fognario va in crisi e così anche cantine e scantinati di zone oggettivamente lontane dai corsi d'acqua si riempiono di acqua e fango. Verso le 9 a Vivaro - a nord della città - il fiume sfonda l'argine e in pochi minuti allaga rapidamente l'abitato della frazione di Cresole di Caldogno, qui la violenza dell'acqua farà la prima delle 2 vittime del nubifragio, Giuseppe Spigolon (l'altra vittima sarà Mario Menin). L'acqua esonda infine nella zona a sud est di Vicenza: Debba, Longare e Montegalda.
Varda i pomi del papà! Il racconto di Francesca.
Papà ci ha telefonato verso le 5,30 del mattino per dirci che l'acqua aveva invaso la cantina, ci ha chiamate tutte e tre e siamo arrivate tutte prima delle 6. L'acqua era salita da sotto, dal pavimento ed aveva raggiunto il soffitto della cantina, quando aprivi la porta che da accesso alla scala che scende giù, l'acqua era quasi a livello del piano terra. Io ho detto a mia sorella Lella: “ma tu sei andata a vedere com'è il negozio prima di venir qua? Ti conviene andare a controllare perché se l'acqua è così alta qui, a Ponte degli Angeli è peggio.” Poi si è visto che l'acqua cominciava ad uscire anche dal fiume e con Laura, l'altra sorella, abbiamo cercato di trarre in salvo le macchine del laboratorio di macelleria di papà che cominciava ad andare sott'acqua. Lì l'acqua mi arrivava al seno. Nel giro di pochi minuti essa ha cominciato ad entrare in casa; abbiamo cercato di alzare mobili ed elettrodomestici, ma in pochissimo tempo era già alta 50 centimetri: è arrivata a lambire il materasso del letto. Un'ora dopo, il parcheggio del PAM davanti a casa era già tutto sott'acqua. In un primo momento avevamo lasciato la macchina proprio nel parcheggio del supermercato, ma per fortuna abbiamo pensato di spostare le auto in Via Pecori Giraldi, dietro al supermercato stesso, dove la strada prosegue in leggera salita. Inizialmente le abbiamo lasciate all'altezza di Via Stuparich, a circa 200 metri di distanza dal primo parcheggio, ma poi, visto come saliva il livello dell'acqua, le abbiamo portate 200 metri più su, vicino alla gelateria Babilonia. Stavamo tornando verso casa dei miei quando indico stupita a mia sorella: “varda i pomi del papà!”. Le mele stavano galleggiando verso di noi a 3/400 metri da casa, l'ondata di piena se le era portate via. I miei genitori ed il loro cane resteranno confinati al primo piano di casa ancora per parecchi giorni.
Accolti dai vicini. Il racconto di Lella e Piero.
Io e Piero abbiamo dato ascolto al consiglio di Francesca e alle 6 siamo andati verso il negozio per vedere la situazione. C'era un sacco di gente che guardava con preoccupazione il fiume dal ponte. La protezione civile stava preparando i sacchi di sabbia e la situazione sembrava critica sì, ma non più di tante altre volte. Perché devi sapere che nel quartiere siamo abituati a vivere in allarme. Almeno un paio di volte all'anno il fiume fa paura sul Ponte degli Angeli. Magari un po' d'acqua ci entra, ma poi tutto torna a normalizzarsi. Tant'è che, prima di entrare in negozio, siamo andati a bere il caffé nella pasticceria di fronte. Stavamo commentando con il pasticcere la situazione quando sono entrate alcune persone della protezione civile. Abbiamo chiesto cosa ne pensavano e ci hanno detto che il livello era molto alto, ma che stavano monitorando. Devi sapere che il nostro salone di parrucchiere ha due stanze: la prima con l'entrata in Via XX settembre e l'altra - più alta di 30/35 centimetri e separata da 2 scalini - che ha un'uscita secondaria in un corridoio ed una scala condominiale che esce in Via IV Novembre. Piero ha deciso di portare per sicurezza l'auto alla Madonnina, dietro l'Istituto Rossi, una zona lontana dal fiume. Poi abbiamo cominciato a mettere in salvo le attrezzature nella stanza più alta mettendole sopra il lettino, con l'idea che così facendo fossero al sicuro. Ad un certo punto l'acqua però comincia ad entrare da Via IV novembre e subito dopo anche da Via XX settembre. In pochi minuti il livello cresce, non si può più uscire dall'ingresso principale. Piero cerca di forzare l'uscita secondaria e con fatica ci riesce; a quel punto l'acqua entra senza ostacoli. Dentro il negozio raggiungerà 1,40 m. di livello. L'uscita in strada di Via IV novembre è però bloccata dai sacchetti di sabbia messi a difesa dall'acqua, l'unica possibilità è salire le scale verso gli appartamenti al piano superiore. Il vicino, un giovane serbo con un figlio piccolo, ci accoglie. Noi siamo completamente bagnati e ci offre vestiti asciutti, da mangiare e da bere. Le strade intorno sono completamente allagate; dopo un po' gli unici mezzi a circolare sono barche, canotti e mezzi anfibi. La moglie del nostro ospite è infermiera presso l'ospedale e quel mattino era di turno. Quando trapela la notizia dell'alluvione chiama a casa per sapere com'è la situazione. Il marito la tranquillizza, le dice di non preoccuparsi, che la casa non è raggiungibile, ma che loro stanno bene. Verso sera la signora riesce a farsi accompagnare a casa con una barca dei pompieri ed a salire in casa dalla finestra, così noi scendiamo dalla stessa finestra e veniamo accompagnati fuori dalla zona allagata. Riusciamo così a raggiungere la macchina e tornare a casa. Al disastro ci avremmo pensato l'indomani.
Vicenza rimane tagliata in due dall'acqua, molte strade sono impraticabili. Soltanto verso sera, grazie ad una tregua della pioggia, il fenomeno sembra rientrare e già dal 2 novembre si cominciano a svuotare le case e i negozi: un lavoro che durerà parecchi giorni.
Il fango rende tutte le cose indistinte, mucchi di macerie si riversano nelle strade. Secondo Francesca molte delle cose che sono state buttate potevano essere recuperate, ma a prezzo di lunghe ore di pulizia e non c'era tempo. Bisognava liberarsi da quel limo, riuscire a pulire le pareti ed i pavimenti delle stanze con acqua pulita, togliere il fetore e l'umidità che avevano impregnato le case. Ecco che allora diventa necessario liberarsi di tutti gli oggetti lordi, anche quelli a cui sei affezionata.
Lella ci racconta come già dal giorno dopo scatta una enorme solidarietà, la zona dove ha il negozio è uno dei punti più critici della città, a due passi dal Teatro Olimpico e dalla centrale operativa della Protezione Civile. Qui le squadre di soccorso di volontari arrivano subito, si tratta di persone di tutte le età, ma soprattutto molti giovani che aiutano a liberare le case dal fango. Lella ha grandi parole di elogio per queste persone ed anche per l'efficienza dimostrata dal Comune e dalle Aziende Municipalizzate che ogni mezz'ora svuotavano i grandi cassoni messi per raccogliere le masserizie. La disgrazia – mi racconta - ha fatto emergere la solidarietà anche fra i commercianti ed artigiani del quartiere colpiti dall'alluvione. Ci siamo aiutati reciprocamente, abbiamo scambiato informazioni e consulenze sulle richieste di rimborso da presentare in Comune, ci siamo chiamati ad ogni nuovo allarme e più volte in quei giorni abbiamo mangiato assieme. Si sono rafforzate le relazioni fra di noi.
Non così immediati invece sono stati i soccorsi in quartieri più periferici come a Viale Trento, replica Francesca, lì gli aiuti non sono arrivati prima di mercoledì/giovedì e, forse perché le strade sono meno strette, anche la raccolta delle AIM non è stata così solerte: a guardare Viale Trento sembrava che fosse stato colpito da un tifone. Poi comunque anche lì sono arrivati gli aiuti.
Va riconosciuto che la risposta dei volontari, fra i quali moltissimi giovani le cui scuole erano chiuse, ma anche pensionati e persone di tutte le età e provenienze, è stata esemplare. Si vedevano circolare in continuazione autobus cittadini che accompagnavano squadre di ragazzi armati di badile nelle varie zone della città. Lo sforzo collettivo era palpabile ed effettivamente - nel giro di una decina di giorni - il grosso del lavoro era stato realizzato. Un lavoro fatto contro il tempo e sotto la costante minaccia di nuove piogge che sembravano non dar tregua e rendere inutile il lavoro svolto.
Quando il 9 novembre Berlusconi e Bossi arrivano a Vicenza, la città è in buona parte già liberata dal fango.
Fu, come sappiamo dalle cronache, una visita invocata dal governatore Zaia, dopo l'iniziale percezione collettiva che la tragedia fosse stata sottovalutata dal governo centrale, ed era volta a rassicurare la popolazione che non sarebbero mancati gli aiuti governativi. Si trattò di una visita breve, il tempo di incontrare in Prefettura i sindaci dei comuni del vicentino colpiti ed assicurare loro un primo stanziamento di 300 milioni di euro per il Veneto. Le cronache locali parlano di poche voci di protesta, ma fanno trasparire anche un'accoglienza fredda, diffidente. La visita a Padova – avvenuta qualche ora dopo – sarà segnata dall'ostilità e dall'indignazione di molti cittadini. Quello che non sono riuscito a capire è cosa ci facesse il Trota, il figlio di Bossi (lui si capisce, la Lega ha in questa provincia uno dei feudi più saldi), ma forse è il preludio all'ereditarietà della carica di ministro o di senatùr.
Due giorni dopo la visita del capo del governo è arrivato in città il Presidente della Repubblica che aveva raccolto l’invito del sindaco di Vicenza di venire a vedere il disastro. L'accoglienza è stata decisamente diversa, forse perché Napolitano aveva espresso il desiderio di incontrare e ringraziare i volontari. L'indomani Il Giornale di Vicenza aprirà così: Pace fatta. Napolitano riavvicina l'Italia a Vicenza.
Vivere in emergenza.
L'alluvione ha colto di sorpresa. Al di là delle polemiche emerse nei giorni immediatamente successivi sui comunicati trasmessi dall'Arpav, nessuno si aspettava un fenomeno di queste proporzioni. Quanto accaduto però ha obbligato amministrazione e protezione civile ad una maggiore attenzione. Del resto, non prendere sul serio gli allarmi che dopo il 1 novembre si sono succeduti sarebbe stato imperdonabile. Molteplici infatti sono state le occasioni di allarme causate dal maltempo nei giorni a seguire, ma oramai le misure di prevenzione erano oliate. Di piovere non ha mai smesso per tutto il mese di novembre e dicembre e molti sono stati i momenti critici. Il primo di questi accade martedì 16 novembre. Sono passati appena 15 giorni, la città ha appena finito di spalar fango e non si è ancora ripresa che, all'ora di pranzo, cominciano a suonare le sirene d'allarme. I vigili urbani con i megafoni avvisano la popolazione delle zone a rischio di mettere in salvo automobili e beni e molti dei volontari mobilitati nei giorni precedenti si presentano presso il centro operativo della protezione civile e cominciano a riempire sacchi di sabbia. In poche ore infatti, nonostante le piogge in città non fossero state particolarmente intense, il livello del fiume è cresciuto di 2,70 m. L'onda di piena arriva da nord, dalle montagne e fa paura. Io stesso sono uscito dall'ufficio per il pranzo e, sentite le sirene, mi sono avvicinato a Ponte Pusterla: il fiume era impressionante. Esso continuerà a crescere per altre 2 ore sino a toccare i 5,30 m. a Ponte degli Angeli (a 6 m. il fiume esonda), ma poi lentamente l'allarme rientra.
Ogni schiarita sembra proprio essere il preludio di un nuovo e più violento nubifragio tanto che il Giornale di Vicenza titolerà la prima pagina così: Da un mese piove due giorni su tre. A novembre sono caduti 800 mml: è un record. Gli allarmi si susseguono in continuazione: domenica 22 novembre, il 23 dicembre, l’antivigilia di natale, quando si riproducono condizioni analoghe a quelle del 1 novembre (grandi piogge e scirocco), sino all'ultima in ordine di tempo del 16 marzo che ha visto tornare sott'acqua i paesi del veronese già colpiti in novembre. Il ripetersi degli allarmi però ha effetti disastrosi sugli alluvionati. La frequenza delle sirene e dei megafoni non permette alle persone colpite di ritornare alla normalità, di effettuare quella rimozione del ricordo necessaria a riprendere i ritmi della quotidianità, provoca ansie e disperazione. Lella ci racconta di una giovane signora che aveva un negozio di intimo vicino al loro salone che dopo l'alluvione aveva rifatto nuovamente il negozio con arredi nuovi e tutto. Ma dopo un mese non ce l'ha più fatta ed ha chiuso. Non riusciva a convivere con gli allarmi ed ha trasferito il negozio in un'altra zona del centro più 'sicura'. Il ripetersi del rischio di finire come il 1 novembre ha prodotto un perfido effetto collaterale: il fatalismo. Raccontano infatti Piero e Lella che quando c'è stato l'ultimo allarme di marzo - nonostante la macchina comunale avesse provveduto ad avvisare capillarmente del nuovo pericolo e lasciato nei punti stabiliti i sacchi di sabbia che ciascuno doveva raccogliere per mettere davanti ai propri ingressi, - pochissimi nella zona li hanno raccolti. In prima battuta spiegano il rifiuto come una reazione al fatto che non si era ancora provveduto a dragare il grande mucchio di rena che si era accumulata sul letto del fiume proprio in prossimità del ponte. In effetti ancor oggi se si passa sul Ponte degli Angeli lo si vede e, benché i tecnici abbiano assicurato gli interessati che non è pericoloso e che ci sono problemi più urgenti da affrontare, è difficile non pensare quale ostacolo potrebbe rappresentare questo mucchio di sabbia nel caso di una nuova piena. In realtà, tornando poi sull'argomento, Lella e Piero spiegano che non sarebbe sopportabile, né umanamente né economicamente, un altro 1 novembre. Piero mi dice: “Qualche giorno dopo la piena di marzo dovevamo partire per l'Africa dove vive nostra figlia ed io ho detto a Francesca: se dovesse entrare l'acqua un'altra volta finché siamo via tu fai soltanto una cosa, apri la porta e che l'acqua faccia quello che vuole”.
Una certa dose di rimozione della memoria diventa necessaria per un ritorno alla normalità perché la psicosi di una vita soggetta a continui allarmi genera fatalismo e, col tempo, l'assuefazione fa abbassare la guardia. Tuttavia sarebbe importante e necessario tener presente che viviamo in una città in cui il rischio di acque alte esiste. Magari non è un fenomeno frequente, ma un fenomeno possibile e quindi, come diceva nel suo intervento alla precedente edizione di Acque alte a Mestre e dintorni il prof. D'Alpaos, bisogna imparare a conviverci.
Anche lo scrittore e critico musicale vicentino Cesare Galla giunge ad una analoga esortazione nell'opuscolo sulla Grande Alluvione pubblicato dal Giornale di Vicenza che raccoglie le immagini più significative dell'alluvione del 1 novembre 2010:
Vicenza è una città di fiumi, ma i vicentini tendono a dimenticarselo. Negli ultimi secoli la nostra storia idrografica è stata una ripetizione seriale di eventi disastrosi. Così, negli archivi continuano ad accumularsi, sovrapponendosi, immagini drammaticamente uguali a se stesse. Una per tutti? Santa Maria in Araceli, il gioiello barocco di Vicenza, invasa dalle acque. E barche di soccorso che navigano nel lago in cui si è trasformato il sagrato. Nel 2010 come nel 1966, nel 1926, nel 1905.... La memoria, questo tipo di memoria, viene considerata inutile, stucchevole, e quindi sbiadisce, si cancella. Così, ogni volta, il disastro è una sorpresa. Solo recuperandola compiutamente, vivendola intimamente, potremo essere davvero pronti ad affrontare la furia dell'acqua e magari anche ad evitarla. Altrimenti continueremo a stupirci e disperarci.
E' questa argomentazione che mi ha fatto riflettere e che mi ha spinto a scavare a ritroso nella memoria cittadina, più o meno recente, alla ricerca delle alluvioni dimenticate.
Non è stata del tutto dimenticata l'alluvione del 1966 perché molti vicentini ricordano di averla vissuta e infatti è con quella che si è confrontato quanto accaduto nel novembre scorso. Molti di voi ricorderanno quell'alluvione perché ha colpito molte parti d'Italia e le immagini di Firenze, travolta dall'Arno in piena, ne sono diventate il simbolo. Il quotidiano locale, nei giorni successivi alla calamità, ha riproposto immagini d'archivio dell'alluvione del 1966, e molte testimonianze e confronti. Nell'opuscolo di cui vi parlavo c'è una foto in cui un signore segnala il livello raggiunto dall'acqua che supera di qualche decina di centimetri la “lapide di livello” del 1966 (cfr. foto).
La lapidi di livello vengono ovviamente poste soltanto in occasione di eventi particolarmente disastrosi, non in tutti i casi di alluvione. Mi sono così incuriosito e sono andato a cercarle in città. Qualcuna ricordavo di averla notata, ma è bastato percorrere le zone più a rischio del centro per trovarle. Ne ho fotografate alcune che ora vi mostro (cfr. foto). In tutte quelle individuate le date che si ripetono sono tre: 1882, 1905 e 1966 (alle quali, con buona probabilità, potrebbe aggiungersi il 2010). Come potrete vedere, in alcuni punti le tre date sono facilmente confrontabili e potremmo dire, con un certa approssimazione, che le alluvioni del 1905 e del 1966 hanno raggiunto all'incirca lo stesso livello, mentre la più tremenda è stata l'alluvione del 1882 il cui livello raggiunto è notevolmente più alto delle altre due.
Sono così andato alla ricerca di qualche documento sulla calamità del 1882 ed ho trovato questa descrizione lasciata dal vicentino Vincenzo Zanella e citata in un suo saggio da Mariano Nardello:
“Da pioggia continuata, si alzò il Bacchiglione, che formò una brentana, alta più del consueto, che fù anche dentro alla chiesa dei Carmini, e in contrada S. Lucia arrivò fino al palazzo del sig.r Zilio. E fù la sera di venerdì ed il giorno di sabato quindici e sedici settembre, si alzò ancora [...] Dalla sera di venerdì, che aveva coperte le due strade di portici Padova e S. Lucia, lavorò le barche a passare i passeggieri fino la sera di lunedì successivo, li diecinove settembre. Il martedì poi le due contrade […] eravi una brentana di fango liquido grandissima. In somma questa innondazione farà epoca memoranda più di quella del 1822 e del 1845. In chiesa all'Araceli arrivò vicina a sormontare i altari di fianco, e l'altare maggiore aveva l'acqua alla cima, dove il sacerdote celebra. Le murette del ponte degli Angeli, quantunque grosse e coperte di pietra grossa e pesante, in quattro parte le furono rovesciate in acqua e sopra al ponte; parte del marciapiedi del ponte fù sollevate le pietre, e portate fuori del suo posto. All'Araceli rovesciò più della metà della mura, che era a parte destra della chiesa;[...] Furono aperte sottoscrizioni per soccorrere i danneggiati, e il denaro che aveva a servire per festeggiare il giorno venti settembre, giorno della presa di Roma, e quello anche per fare un monumento al generale Garibaldi, stante la gran miseria a causa delle generali innondazioni, fù devoluto a totale benefizio delle famiglie povere. [..] Venerdì, circa alle ore due dopo al mezzo giorno, arrivò qui Sua Maestà Umberto I, e volle andare a rivedere tutti i danni fatti dalle acque; ed in molte contrade si portò a piedi, con tutto il suo seguito. Indebolito dalle scosse dell'acqua, la mattina di domenica li ventiquattro settembre precipitò il ponte novo sul Bacchiglione: era un ponte di quadrelli ad un solo arco; era circa alle ore undeci mattina, e fù un vero miracolo che nessuno in quel momento gli fosse passando sopra: era all'altezza di quindici metri. Era fatto nel 1793. Nelle prime ore del mercordì li ventisette settembre fù sentita una scossa forte di terremoto. Martedì li ventisei settembre, alle ore quattro e mezzo pomeridiane circa, precipitò il ponte della ferrovia a Lerin, sopra il fiume torrente Tesina, che era appena passata la corsa che da Vicenza arriva a Padova; questo ancora caddè a causa del troppo umido e della troppa acqua, che continua la pioggia ancora. In questa inondazione fù distrutto il ponte ferroviario tra Cittadella e Vicenza. Venerdì li ventinove settembre, si cominciò a vedere una cometa, a parte di levante; la sua stella e [sic] piccola ed ha una coda lunghissima, e bella. Sembra ai nostri occhi vada crescendo ogni giorno; la si vede bella nelle ultime ore della notte. […] Dopo la seconda brentana, che fù alli quindeci e sedeci settembre, venerdì e sabbato, abbiamo avuto rare giornate di buon tempo, e quasi sempre pioggia in larga copia, con temporali, che alla mattina di sabbato l'acqua si alzò, che sortì dai alvei e formò la terza brentana, allagando nuovamente le contrade S. Pietro e S. Lucia, per cui furono adoperate barche e carri pel trasporto dei passaggieri. […] Danni grandissimi produssero le piene dei fiumi, e danni grandi per i sorghi e foraggi rimasti sotto alle acque: le valli di Fimon, tanto ubertose di sorghi quest'anno, appena appena lo si fece servire per pasto alle bestie.”
Se facessimo un confronto con le cronache dei primi giorni dopo l'alluvione dello scorso anno, potremmo tranquillamente sostituire (almeno per il centro cittadino, altri quartieri ora colpiti allora erano campi) la descrizione dello Zanella ai resoconti fatti dai giornalisti, tanto i luoghi e e le immagini sono gli stessi di 129 anni fa.
Ci sono state altre piene non degne di essere menzionate in una lapide, ma non per questo meno disastrose: lo stesso Zanella nella sua descrizione ne ricorda altre due nel corso del XIX secolo: il 1822 ed il 1845, così come abbiamo visto Galla citare la piena del 1926.
Inoltre se ne ricordano altre negli anni Trenta, ma anche in periodi molto più vicini a noi, del resto ricorderete che non era la prima volta che l'acqua entrava nella bottega di Piero e Lella: è solo una questione di proporzioni.
Ritorniamo allora al discorso di Galla e vediamo di dare un senso a quel “recuperare compiutamente e vivere intimamente la memoria dell'acqua alta”. Io credo che in primo luogo significa interiorizzare la consapevolezza di vivere in un territorio esposto periodicamente a questi rischi e quindi costruire una coscienza collettiva capace di indignarsi e reagire contro gli abusi sul territorio perpetrati da appetiti pubblici e privati. Vuol dire sviluppare una sensibilità per cui – ad esempio - non solo non è etico, ma risulta anche pericoloso e dannoso economicamente costruire immobili che si sviluppano nel sottosuolo (garages, taverne ecc.) in prossimità di aree di risorgiva. Le attuali tecniche di costruzione consentono ovviamente di ottimizzare – in un regime dei prezzi dei suoli sempre crescente – lo spazio occupato ricavando vani ipogei, ma si deve tener conto di dove si costruisce, altrimenti periodicamente questi sotterranei sono destinati a trasformarsi in serbatoi di laminazione delle piene, in vasche d'acqua e fango. Anche quando non si arriva a tanto: pensiamo a quanto sono costrette a lavorare le pompe ad immersione per evitare che non si riempiano d'acqua? Quanta energia consumano? Del resto non è un criterio molto diverso da quello universalmente condiviso per cui in zone soggette a rischio di terremoto, le costruzioni devono essere fatte con criteri antisismici. Vorrei sottolineare che non si tratta di una polemica contro il modello della tavernetta ed il garage interrato (il mio stesso garage è interrato) ma contro la scarsa attenzione degli uffici tecnici comunali da un lato, e la minimizzazione dei rischi da parte delle imprese costruttrici dall'altro, le quali spesso bollano come impedimenti burocratici tali eccezioni (del resto loro costruiscono per vendere, mica è un problema loro se poi chi ci va a vivere è esposto a rischi di allagamento). Il discorso sui criteri degli insediamenti abitativi va inserito poi, in una più generale attenzione collettiva sul governo del territorio e la realizzazione di opere per la difesa idraulica. Nei giorni immediatamente successivi tutti: cittadini, amministratori locali, protezione civile, governo regionale e nazionale hanno dichiarato che la priorità è realizzare subito le opere necessarie per evitare il ripetersi di disastri analoghi in futuro. Sappiamo però che, per far questo, sono necessarie risorse, ma anche idee e progetti coerenti e che – a parte qualche intervento tampone – ci vuole tempo. Ed è qui che diventa necessaria mantenere viva la memoria collettiva dell'alluvione, altrimenti ce ne ricorderemo soltanto alla prossima stagione di grandi piogge. Vi riporto qui un dichiarazione rilasciata al G.d.V. dal prof. D'Alpaos:
[…] è dal novembre del 1966 che si parla di rischi idrogeologici e della possibilità che riaccada quanto avvenuto 44 anni fa – prosegue il prof. D'Alpaos -, ma il fatto è che se ne parla soltanto. Mi rendo conto che la politica non ha interesse alla realizzazione di opere per la difesa idraulica perché se lo facesse oggi, non lo farebbe pensando all'attualità, ma ai figli se non addirittura ai nipoti, non so se rendo l'idea della prospettiva dell'utilità.” Un bella strada pre-elettorale – chiosa l’intervistatore - è di certo più spendibile in termini politici, lascia intuire D'Alpaos...
Una diversa sensibilità verso il territorio in cui si vive significa mantenere vigile l'attenzione dell'opinione pubblica sugli interventi a salvaguardia dello stesso controllando che le amministrazioni (locali, regionali e nazionali) li portino a realizzazione. Le amministrazioni, nel realizzare le grandi opere, devono imparare a coinvolgere e condividere le scelte con la popolazione interessata, gli studi dei tecnici devono poter essere vagliati da altri tecnici e dai cittadini in modo che sugli interessi particolari prevalgano gli interessi generali. Faccio l'esempio della polemica scoppiata sul giornale locale - qualche giorno dopo l'alluvione - sulla mancata realizzazione di un canale scolmatore di piena del bacino del Retrone i cui lavori erano già stati appaltati nel 1988 ad una associazione di imprese. I lavori furono subito bloccati dalla protesta dei comitati di cittadini sostenuti anche dalle amministrazioni comunali interessate (in particolare il Comune di Arcugnano, nel cui territorio era previsto l'intervento più significativo). Il prefetto Sergio Porena si rifiutò di firmare il decreto di urgenza ed il lavori furono interrotti sul nascere. Così, anziché approdare ad una soluzione alternativa e condivisa, si è arenato tutto ed è stata pagata una penale di 6 miliardi e mezzo di lire alle ditte aggiudicatarie per la risoluzione del contratto, senza che alcun lavoro fosse eseguito. Non ho avuto il tempo di approfondire la vicenda, tuttavia credo che quando si intende realizzare un piano di salvaguardia del territorio si debba cercare di coinvolgere la popolazione interessata e le amministrazioni locali in modo che le scelte siano ampiamente condivise, bisogna saper ascoltare le voci di dissenso ed anche le alternative proposte se sono credibili, sempre però avendo presente il bene comune. Un processo che dovrebbe avvenire prima e non dopo il bando di gara per l'esecuzione delle opere. In questi frangenti le difficoltà non mancano, ma la democratizzazione delle scelte non deve portare all'inazione. Il problema deve essere risolto e non messo da parte: è questa la sfida.
Io auspico che si faccia strada questa nuova sensibilità e che la memoria del disastro sia per una volta “maestra di vita”, tuttavia non so se non sia troppo tardi per porre rimedio a un territorio brutalizzato dalla speculazione edilizia come il nostro (parlo del vicentino, ma anche del Veneto e, più in generale, di quella grande conurbazione che va da Trieste ad Aosta) trasformato in una immensa periferia – senza soluzione di continuità - punteggiata da villettopoli senza servizi, da una moltitudine di centri commerciali, da zone artigianali e industriali che la delocalizzazione ha svuotato e reso ancora più deprimenti. Vi sottopongo solo alcuni dati relativi al censimento 2001 (quindi oramai vecchi): il Veneto constava di 1.699.521 abitazioni occupate e 318.055 abitazioni non occupate pari al 15,76% sul totale (i dati per la provincia di Vicenza sono rispettivamente 295.045 e 57.575 pari al 16,32% sul totale), con una media di 2 stanze per abitante. E' un indicatore, ovviamente i dati andrebbero disaggregati, ma ci dà l'idea del surplus di patrimonio abitativo regionale. A questo si aggiungano le costruzioni destinate ad altri usi che occupano aree ancora più vaste. Non so come si sia evoluta la situazione ad un decennio di distanza dall'ultimo rilevamento, ma una cosa è certa: l'assalto al territorio non si è mai fermato. Soltanto la crisi che ha colpito l'economia negli ultimi anni ne ha rallentato il ritmo. La cementificazione del territorio rende molto più difficile (o quanto meno molto più costoso) qualsiasi intervento di difesa idraulica e si complicano gli interessi in campo. Per questo per la salvaguardia e la riqualificazione del territorio è necessaria una rivoluzione della coscienza collettiva. Ma forse per questo Vicenza dovrebbe diventare Macondo ed i suoi abitanti dei personaggi letterari.