Commento ad alcune foto scattate allo stabilimento valdagnese della Manifattura Lane G. Marzotto & Figli nel dicembre 2013.
Il presente articolo è stato pubblicato (con qualche piccola modifica) nella pagina web di storiAmestre (www.storiamestre.it), associazione di cui mi onoro di far parte.
Se
si arriva a Valdagno dal fondovalle e, all'ingresso del paese, si
prende la tangenziale esterna che porta verso Recoaro, ad un certo
punto dall'altra parte del fiume appare il grande storico
stabilimento della Manifattura Lane Marzotto. Da un po' di tempo
l'immagine è desolante. I moltissimi vetri rotti della facciata
fronte strada dell'opificio riflettono una sensazione di disuso, di
abbandono. A dire il vero, guardando l'ingresso dello stabilimento,
la pensilina e la portineria mantengono ancora un decoro ed i fasti
da Grand Hotel, ma si non vede più il fluire di migliaia di
lavoratori come un tempo e solo una parte degli uffici e dei reparti
è ancora utilizzato, il resto è vuoto.
Questa
fabbrica che ha rappresentato –
assieme alla galassia di Alessandro Rossi nella vicina Schio – il
terzo polo della prima industrializzazione italiana è ora un relitto
di archeologia industriale. Per quasi due secoli ha segnato i destini
della popolazione della vallata, è stato al contempo dannazione e
speranza per i molti lavoratori che lì dentro hanno trascorso la
loro vita ed ora è lì, enorme parallelepipedo silente. Pochissimi
gli addetti rimasti a lavorare nello stabilimento, poco più di
cinquecento. La produzione laniera che fino al 1968 contava 5000
operai (numero già in forte flessione rispetto al dopoguerra) ora
non è più qui. La dura ristrutturazione in atto in quel lontano 19
aprile 1968 aveva fatto scoppiare la rabbia operaia di una classe che
si era sempre mostrata pronta a chinare il capo, ma che, sentendosi
tradita, aveva reagito rompendo i vetri della fabbrica, scontrandosi
duramente con la polizia ed abbattendo la statua del fondatore
Gaetano Marzotto Senior per rivendicare il diritto ad una condizione
di vita decente in fabbrica come fuori. Lo scontro di allora fu
seguito da una lunga lotta che – per la prima volta dalla nascita
del lanificio – non finì in una sconfitta per gli operai. Essi
ottennero condizioni di lavoro più decenti e di essere espulsi dalla
fabbrica senza un calcio nel culo. Perché la produzione tessile era
già allora un settore maturo che subiva la concorrenza dei paesi
emergenti, ma una diversa idea delle relazioni industriali e
l'integrazione della produzione nel sistema moda italiano ha permesso
una riduzione più dolce degli addetti e i Marzotto hanno anche
sostenuto con aiuti finanziari le nuove iniziative industriali che
nascevano nel territorio per dare nuove opportunità alle nuove
generazioni e scrollarsi il fardello della company town che
avevano generato. Un defilarsi lento che – con i diktat
della globalizzazione – subisce un'accelerazione; la produzione
abbandona Valdagno e gli altri stabilimenti in Italia per essere
svolta nelle fabbriche della Lituania, della Romania e della
Repubblica Ceca post comuniste o dall'altro lato del mediterraneo.
Per avere un'idea in numeri dell'esodo prendiamo i dati indicati
nell'ultimo bilancio disponibile del Gruppo Marzotto (31 dicembre
2012): 3.479 addetti di cui 1350 in Italia, 998 in Repubblica Ceca,
380 in Lituania, 150 in Romania, 574 in Tunisia;
di primo acchito l'azienda sembrerebbe avere ancora una forte base in
Italia, ma la pagina web del gruppo parla di 11 stabilimenti in
Italia e 5 siti produttivi all'estero, ecco quindi che il peso della
produzione in Italia sembra diluito in molti stabilimenti con poche
decine di addetti. Le relazioni di
bilancio danno conto inoltre di piani di chiusura di alcuni degli
stabilimenti italiani: la definitiva chiusura della divisione tessuti
di Sondrio (14 addetti), la chiusura degli stabilimenti di Villa
d'Almé (Bergamo) e di Fossalta di Portogruaro (94 addetti), il
licenziamento di 51 addetti della società del gruppo Ratti Spa, 7
licenziamenti nella Collezione Grandi Firme e la chiusura dello
stabilimento di filatura pettinata a Piovene Rocchette (121 addetti).
La chiusura di Piovene mi ha visto testimone nei primi mesi dell'anno
scorso di una singolare e toccante dimostrazione di protesta da parte
dei lavoratori licenziati: essi avevano
crocifisso le proprie tute di lavoro alle inferriate della fabbrica,
l'immagine evocava le vittime di un massacro esposte a monito della
popolazione.
La
nota di bilancio parla anche di un contratto di flessibilità
raggiunto con le organizzazioni sindacali del GMF (Gaetano Marzotto &
Figli) di Valdagno che riguarda 221 addetti, non si capisce se questo
è il numero totale degli addetti valdagnesi o se sono quelli
interessati alla flessibilità.
I
vincoli con la comunità si sono allentati, l'azienda è sempre più
internazionale ed anche la società è cambiata: nell'era del
pensiero unico liberista nessuno osa più sognare una società più
giusta, né reclamare il diritto ad una vita dignitosa, l'unico dogma
è la libera circolazione dei capitali e la riaffermazione che il
lavoro non deve essere pagato o pagato molto poco, pochissimo. La
velocità di spostamento delle produzioni ha messo a disposizione un
enorme esercito di riserva di affamati. Sarebbe interessante
verificare con le organizzazioni sindacali se e quali sono le
relazioni industriali attualmente esistenti con il gruppo; quali sono le condizioni di
lavoro in Tunisia, in Lituania, in Romania e in Cechia, se esistono
là organizzazioni sindacali e fermenti operai e, soprattutto, se
esiste un coordinamento fra i sindacati dei vari paesi in cui sono
ubicate le fabbriche della Marzotto. Ho fatto un tentativo di
contattare la responsabile dei tessili vicentina della CGIL, ma non
ci sono riuscito al primo colpo e non ho insistito, magari in futuro
sarà l'occasione per tornare in argomento. Non so effettivamente
cosa stia succedendo in quelle fabbriche, e quindi mi limito ad
alcune riflessioni di carattere generale che, credo, accomunano tutte
le produzioni che sono state delocalizzate. Nei paesi dell'ex blocco
sovietico le organizzazioni sindacali devono scontare il peso di un
fardello ideologico che, in nome del movimento operaio, aveva per
decenni imbrigliato e represso le rivendicazioni dei lavoratori. Il
vuoto lasciato dal crollo dell'Urss è stato riempito dal pensiero
unico liberista che ha lasciato poco spazio ad una azione collettiva
nelle coscienze dei lavoratori.
C'è
inoltre un problema di tempi. Se da un lato, la costruzione della
fiducia nell'azione collettiva fra i lavoratori abbisogna di un lento
lavoro organizzativo che si sedimenta nel vissuto di una infinità di
torti e soprusi piccoli e grandi fino a confluire nel sentimento di
solidarietà e di ribellione da parte di soggetti che condividono
quotidianamente la medesima condizione di sfruttamento (quella che un
tempo si definiva coscienza di classe),
dall'altro lato la globalizzazione sta rendendo più veloce lo
spostamento delle fabbriche rispetto alla capacità di organizzazione
dei lavoratori. E' questa divaricazione dei tempi che rende più
debole la resistenza dei lavoratori ai ricatti padronali. Spesso le
cronache ci raccontano di fabbriche svanite durante le ferie
d'agosto, gli impianti trasferiti quasi clandestinamente, lasciando i
capannoni vuoti ed operai smarriti davanti ai cancelli. Credo che la
percezione – conscia o inconscia – che accomuna sia i lavoratori
derubati che quelli che li rimpiazzeranno nelle fabbriche
ricostituite nei paesi di destino è di essere parte di un enorme
esercito di riserva che li condanna ad una nuova servitù. Come é
potuto succedere? La mia idea è che il duplice processo di
robotizzazione e di globalizzazione hanno espropriato definitivamente
il lavoratore del controllo sul processo produttivo e della coscienza
di sé. Cercherò di spiegarmi meglio: nella fabbrica manifatturiera
il prestatore d'opera controllava in qualche modo il processo grazie
al suo saper fare e ciò gli dava una certa forza contrattuale; nella
successiva fabbrica fordista l'operaio non specializzato assume
coscienza dell'alienazione del lavoro; la catena di montaggio aumenta
in modo esponenziale il divario fra lavoro e prodotto del lavoro e
l'unico modo possibile per recuperare potere contrattuale in fabbrica
è reagire a questa espropriazione convogliando la frustrazione e la
rabbia che essa produce in nuove forme di lotta e di costante
interruzione del processo produttivo. Nasce così uno scontro
politico inedito volto a modificare i rapporti di forza all'interno
della fabbrica che per un breve periodo risulta vincente. In entrambi
i casi, la condizione essenziale che ha permesso l'affermarsi di una
coscienza di classe è il luogo stesso: la fabbrica. La nascita e lo
sviluppo del movimento operaio si fonda nel fatto di condividere
quotidianamente, gomito a gomito, lavoro e condizioni di
sfruttamento. E' proprio questo legame, questo tòpos, che il
processo di robotizzazione/globalizzazione ha spezzato con la
creazione di quella che definirei: la fabbrica virtuale.
La
nuova fabbrica virtuale, prima di tutto, ha poco bisogno del saper
fare, della presenza cioè di una manodopera specializzata nel
territorio perché la robotizzazione del processo produttivo permette
di controllarlo in remoto da migliaia di chilometri di distanza. Per
la stessa ragione la produzione può rapidamente essere spostata da
un luogo ad un altro spezzando così sul nascere le resistenze. Anche
la parte più professionalizzata del lavoro si disperde in mille
rivoli di consulenze, progetti ed altre collaborazione esterne alla
fabbrica che hanno prodotto un tracollo dei prezzi del lavoro. Si
potrebbe dire che si è imposta una pratica la cui valenza generale
non impedisce che vi siano delle eccezioni: il lavoro – sia esso
manuale o intellettuale – non deve essere pagato. Ecco allora che
se nel 1968 fu la statua del fondatore a finire per qualche giorno
nella polvere, dopo qualche decennio è la fabbrica intera ad essere
coperta dalla polvere dell'abbandono e il segnale stradale di
pericolo che un tempo avvertiva l'automobilista dell'uscita operai
ora sembra minacciare un'uscita di quest'ultimi senza alcuna
possibilità di rientro.
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