giovedì 19 settembre 2024

Il testamento di Marc Bloch ad ottant’anni dalla sua morte.

 

L'articolo qui riproposto è stato pubblicato sul sito di storiAmestre il 22 giugno 2024 per ricordare gli 80 anni dall'assassinio di Marc Bloch avvenuto il 16 giugno 1944. Lo ripropongo qui integralmente.

Il nostro socio Walter Cocco segnala che sta sorgendo una nuova rubrica del sito di storiAmestre, ne vede la necessità in questo tempo presente così preoccupante e per concretizzare la proposta ci invia un articolo in cui ripropone il testamento di Marc Bloch ad ottant’anni dalla sua morte.

Recentemente, mentre stavo scrivendo l’articolo sulla Rivoluzione dei Garofani portoghese1, ho riletto Sostiene Pereira di Antonio Tabucchi. L’avevo letto al momento della sua pubblicazione e poi è rimasto nello scaffale della libreria. Il romanzo descrive efficacemente il cupo e soffocante clima del regime di Salazar ed è difficile non pensare al preoccupante parallelismo con il tempo presente in cui nuovi fascismi stanno montando in Italia e in Europa. Rileggendolo mi sono fermato sulla relazione quasi paterna fra Pereira e il giovane praticante Monteiro Rossi e sull’idea di Pereira di istituire una rubrica Ricorrenze nella pagina culturale del quotidiano Lisboa in cui scrive e affidarla al giovane collaboratore. Ma Monteiro Rossi scrive soltanto necrologi impubblicabili in quel 1938, quando il regime di Salazar è in piena auge e la polizia politica e la censura riduce al silenzio qualsiasi voce non allineata. 

Questa storia mi ha suggerito che anche storiAmestre potrebbe dotarsi di una rubrica con questo nome: Ricorrenze, con la quale sfidare il crescente fascismo del presente e rivendicare la piena adesione della nostra associazione ai valori dell’antifascismo scritti a chiare lettere nella nostra costituzione. Questa rubrica, in realtà, anche se inconsapevolmente, è iniziata con gli articoli sul golpe cileno del 11 settembre, sulla rivoluzione dei garofani dello scorso 25 aprile e con il recente articolo di Alessandro Voltolina su Giacomo Matteotti.  

Ora, per ricordare gli ottanta anni dall’assassinio di Marc Bloch, uno dei più grandi storici del Novecento e resistente antifascista ripropongo il suo testamento scritto a Clermond-Ferrand il 18 marzo 1941 e reso pubblico nel 1946.

Dovunque io muoia, in Francia o in terra straniera, e in qualsiasi momento ciò accada, lascio alla mia cara moglie o in sua mancanza ai miei figli la cura di provvedere ai miei funerali, come riterranno opportuno. Saranno funerali puramente civili: i miei cari sanno che non ne avrei voluti di diversi. Ma spero che quel giorno – nella camera ardente o al cimitero – un amico voglia dar lettura di queste poche parole:

Non ho chiesto che sulla mia tomba si recitassero le preghiere ebraiche la cui cadenza, purtuttavia, accompagnò all’ultimo riposo tanti dei miei antenati e il mio stesso padre. Per tutta la vita, come meglio ho potuto, ho teso a una totale sincerità d’espressione e di spirito. Ritengo la compiacenza alla menzogna, qualunque sia il pretesto che essa accampi, la peggior lebbra dell’animo. Come qualcuno tanto più grande di me, desidererei che la mia tomba, quale unico motto, portasse incise queste semplici parole: Dilexit veritatem. Per questo non potevo accettare che in quest’ora di supremi addii, quando ogni uomo ha il dovere di riassumere se stesso, si invocasse in mio nome l’ardore di una ortodossia di cui non riconosco il credo.

Ma ancora più odioso sarebbe per me se vi fosse chi, in questo atto di onestà, ravvisasse qualcosa di simile a un vile rinnegamento. Affermo dunque se è necessario di fronte alla morte di essere nato ebreo; che mai ho pensato di negarlo, ne mai ho avuto motivo di essere tentato a farlo. In un mondo assalito dalla più atroce barbarie, la generosa tradizione dei profeti ebrei, che il cristianesimo, in ciò che ebbe di più puro, riprese e diffuse, non resta forse una delle nostre migliori ragioni per vivere, credere, lottare?

Estraneo a ogni formalismo confessionale come a ogni presunta solidarietà razziale, per tutta la vita mi sono sentito anzitutto e semplicemente francese. Legato alla mia patria da una già lunga tradizione famigliare, nutrito della sua eredità spirituale e della sua storia, incapace, in verità, di concepirne un’altra in cui respirare a pieni polmoni, l’ho amata molto e servita con tutte le mie forze. Mai, il mio essere ebreo mi è parso di ostacolo a questi sentimenti. Nel corso di due guerre non mi è stato dato di morire per la Francia. Almeno, che io possa rendere a me stesso questa testimonianza: muoio, come ho vissuto, da buon francese2.

Marc Bloch è uno dei grandi storici del Novecento. Fondatore con Lucien Febvre degli Annales d’histoire économique et sociale, rivista attorno alla quale si forgerà una delle più importanti scuole di storici nel corso del ventesimo secolo. I suoi studi di medievista ci hanno lasciato opere fondamentali ancor oggi come Re e servi. Un capitolo di storia capetingia, I re taumaturghiLa società feudale, I caratteri originali della storia rurale francese, (solo per citarne alcuni) ma anche un’opera che per la mia formazione è stata fondamentale: Apologia della storia o il mestiere di storico3, uscita postuma a cura dell’amico e collega Lucien Febvre. 

Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale Bloch si arruolò volontario, iniziò con il grado di sergente e alla fine del conflitto venne congedato col grado di capitano dei servizi d’informazione. Ebbe quattro citazioni all’ordine del giorno, fu decorato con la Legion d’onore per fatti militari ed ebbe la Croce di guerra. Un uomo del suo tempo, per certi versi mi ricorda Emilio Lussu. 

Quando inizia il secondo conflitto mondiale, Bloch aveva cinquantatre anni, era padre di famiglia ed era un affermato professore universitario. Poteva essere esonerato ma egli si rimise volontariamente l’uniforme e assistette a quella strana disfatta dell’esercito francese, come lui stesso la definì4, e all’occupazione tedesca in Francia. La smobilitazione dell’esercito e l’occupazione nazista lo spinsero ad entrare nella Resistenza nel 1943, egli entrò in clandestinità a Lione nel movimento Franc-Tireur. Venne catturato e consegnato alla Gestapo l’8 marzo 1944. Arrestato e torturato rimase nel carcere di Montluc a Lione fino al 16 giugno 1944, quando venne assassinato dai nazisti assieme ad altri ventisei compagni nella località “Les Rousilles”, presso Saint Didier de Formans, a nord di Lione.

La nostra associazione ha dedicato alla memoria di Bloch il Quaderno di storiAmestre n. 3 dal titolo Bloch Notes. Domande e riflessioni nell’anniversario della morte di Marc Bloch (1944-2004) a cura di Elena Iorio e Filippo Benfante, pubblicato nell’autunno 2005. Il Quaderno raccoglie alcuni interventi tenuti nel corso di un incontro del 19 maggio 2004 presso il Dipartimento di Studi Storici dell’Università di Venezia dal titolo “L’importanza di essere storici. L’eredità di Marc Bloch nella storiografia contemporanea”. Come è stato scritto nella prefazione, l’incontro fuun’occasione per riflettere sul «mestiere di storico», sul valore civile della storiografia e più in generale della scrittura, su genealogie culturali, sul rapporto tra vita, professione, ruolo pubblico e militanza politica, sulla guerra, sul pacifismo, sul rapporto tra stato e individuo, su resistenza e disobbedienza, sulle scelte e sulle responsabilità individuali, sulla libertà, sulla morte. 

Le riflessioni contenute nel volume sono ancora di grande attualità e ne raccomandiamo la lettura a chi non l’avesse ancora fatto richiedendo una copia del Quaderno alla nostra associazione.

NOTE

1Cfr. A cinquant’anni dalla Rivoluzione dei garofani, pubblicato in questo sito il 3 maggio 2024.

2. La traduzione del testamento di Marc Bloch qui riproposta è tratta dal testo dell’intervento di Alessandro Casellato, A proposito del testamento di Marc Bloch, in Quaderno di storiAmestre 3, Bloch Notes. Domande e riflessioni nell’anniversario della morte di Marc Bloch (1944-2004), a cura di Elena Iorio e Filippo Benfante, 2005, pp. 25-32. L’importanza della traduzione proposta da Casellato è indicata nella nota dell’autore che qui riproponiamo integralmente: Il testamento, datato «Clermont-Ferrand, 18 marzo 1941», fu reso pubblico nel primo fascicolo delle Annales del dopoguerra, Hommages à Marc Bloch (“Annales d’histoire sociale”, 7, 1945 [ma febbraio 1946]); la prima traduzione italiana è del 1970, qui si riprende quella più recente, in M. Bloch, La strana disfatta. Testimonianza del 1940. Introduzione di S. Lanaro, Einaudi, Torino, 1995, pp. 163-164 (dove un grave refuso cambia il senso a una delle frasi decisive del testo: «Mai il mio essere ebreo mi è parso di ostacolo a questi sentimenti» diventa a pag. 164 «Ma il mio essere ebreo…»). Il testamento di Bloch si concludeva con la richiesta di leggere le sue cinque citazioni al valor militare, conseguite nella prima e nella seconda guerra mondiale.

3. M. Bloch, Apologia della storia o il mestiere di storico, Feltrinelli 2024.

4. M. Bloch, La strana disfatta. Testimonianza del 1940, Einaudi, Torino, 1995.


sabato 18 maggio 2024

A cinquant’anni dalla Rivoluzione dei garofani

L'articolo è stato pubblicato il 3 maggio 2024 nel sito di storiAmestre, qui lo ripropongo integralmente, ma senza le immagini che accompagnavano il testo.. Buona lettura C.W.


03/05/2024

Le persone che aderiscono a storiAmestre hanno una passione che le accomuna: la storia contemporanea. Una passione che esprimono in diversi ambiti e con diverse modalità di ricerca così come sono guidate da diverse sensibilità e modi di pensare. Abbiamo sempre pensato e promosso queste diversità come una ricchezza. Su un punto tuttavia le socie ed i soci di storiAmestre si sono sempre dichiarati unanimi: l’antifascismo, un valore sempre affermato e condiviso dai suoi aderenti. Per questo in molte occasioni abbiamo salutato il 25 aprile, festa della liberazione dal nazi-fascismo, con la pubblicazione di qualche scritto o con il pubblico scambio di auguri. In questi tempi in cui la mefitica aria di fascismo sta infestando l’Italia, l’Europa e il mondo intero vorremmo salutare il 25 aprile ricordando che non è soltanto la ricorrenza della nostra Liberazione, ma che da cinquant’anni, dal 25 aprile 1974, la condividiamo con il popolo portoghese, o almeno con quei portoghesi che, come noi, condividono i valori dell’antifascismo.

Più che la celebrazione di un anniversario il nostro vuole essere un invito a riflettere e a reagire al ritorno dei fascismi. Le recenti elezioni politiche in Portogallo hanno portato alla ribalta il movimento fascistoide “Chega!” sull’onda della crescita di movimenti analoghi in tutti i paesi europei. La fascinazione di fasce sempre più ampie di popolazione europea per le parole d’ordine neofasciste ci impone di cercare un antidoto, di trovare un modo, forte e condiviso, per veicolare i valori antifascisti in Italia ed in Europa.

di Walter Cocco

La dittatura militare in Portogallo

Il 28 maggio 1926 un colpo di stato militare mise fine al tentativo di rigenerazione repubblicana iniziata nel 1910 con la cacciata della monarchia portoghese. La repubblica liberaldemocratica non seppe aggregare attorno a sé un blocco sociale sufficientemente ampio, nonostante le iniziali simpatie dimostrate dalla giovane e ridotta classe operaia lusitana. L’economia del paese era fortemente dominata da un’agricoltura in cui la proprietà era ancora nelle mani di poche famiglie latifondiste e l’industria limitata a poche realtà urbane. L’esperienza repubblicana perciò fu caratterizzata da una costante instabilità politica fra tentativi di restaurazione monarchica e timide proposte di riforma – su tutte la riforma agraria – che generarono proteste anche sul fronte popolare che furono duramente represse. I riformatori liberaldemocratici si alienarono così l’iniziale appoggio delle classi popolari e la situazione si complicò ulteriormente con la crisi economica che attraversò il paese all’indomani della prima guerra mondiale. 

A metter fine alle tensioni sociali intervenne l’esercito che instaurò una dittatura decisa a reprimere qualsiasi fermento sociale. Nella giunta di governo venne nominato nel 1928 come ministro delle finanze un giovane docente universitario António de Oliveira Salazar che, in un ambiente normalizzato dalla repressione, seppe mettere ordine al bilancio statale. I successi ottenuti fecero emergere Salazar come uomo forte del governo e nel 1932 divenne primo ministro. La sua figura carismatica riuscì a raccogliere intorno a sé un blocco sociale formato dagli agrari latifondisti, dalla gerarchia ecclesiastica e dall’esercito che gli dettero ampio margine di manovra per modificare la costituzione e le istituzioni statali. Con le riforme introdotte nel 1933, nacque così l’Estado Novo: uno stato corporativo mutuato in buona parte dal fascismo italiano e influenzato dalla dottrina sociale della chiesa nella versione reazionaria e ultraconservatrice propagandata dal francese Charles Maurras1. Sempre sulla falsariga del fascismo italiano istituì il partito unico la Uniao Nacional, la milizia di regime organizzata nella Legiāo Portuguesa e la Mocidade Portuguesa che inquadrava la gioventù alla stregua dell’Opera Nazionale Balilla. I legami del regime di Salazar con il fascismo italiano e con il nazismo tedesco andarono ben oltre le “affinità elettive”, recenti studi hanno confermato l’invio di specialisti italiani mandati da Mussolini in aiuto a Salazar per organizzare la PVDE2, la polizia politica che avrà il compito di prevenzione e repressione del dissenso. Elementi della PVDE furono inoltre inviati in Germania per essere addestrati dalla Gestapo3. Nonostante i forti legami con il fascismo italiano e il nazismo tedesco, Salazar, allo stesso modo di Franco, mantenne il paese fuori dal secondo conflitto mondiale e questo gli permise, quando le sorti si fecero avverse per le forze dell’Asse, di avvicinarsi al campo avversario ed offrire basi logistiche agli americani (Azzorre). Il supporto logistico offerto agli Alleati fece sì che la liberazione dai fascismi in Europa si fermasse sui Pirenei e i regimi di Salazar e Franco potessero contare sulla protezione britannica e statunitense in chiave antisovietica. 

La concezione ruralista della società di Salazar sostenuta dallo stretto rapporto con la gerarchia ecclesiastica e l’idea di unità indissolubile fra la nazione ed i territori d’oltremare sostenuta dagli alti comandi delle forze armate e dai coloni che ivi si stabilirono, nonché la costante e brutale repressione di qualsiasi movimento o espressione non in linea col regime immobilizzarono la società portoghese per almeno vent’anni dopo la fine del conflitto mondiale. Essa rimase una società arretrata sul versante agricolo, con una industria molto limitata; a fronte di poche famiglie che controllavano le risorse economiche e finanziarie vi era una enorme massa impoverita e socialmente impaurita da uno stato di polizia onnipresente che contava su una fitta rete di spie e delatori. 

Effetti dei conflitti con la guerriglia indipendentista nelle colonie

Le cose si complicarono nel corso degli anni Sessanta, i processi di decolonizzazione in atto (in particolare l’indipendenza algerina dalla Francia e il conflitto in Vietnam) ebbero diretta influenza sulla nascita di movimenti indipendentisti nelle colonie portoghesi che, data la posizione oltranzista di Salazar e dell’esercito, portarono all’esplosione del conflitto in Angola nel 1961, in Guinea Bissau nel 1963 e in Mozambico nel 1964. Anche qui – come già accadde nelle colonie francesi – la repressione contro una guerriglia che trova sostegno in ampie fasce della popolazione finisce per estendere il conflitto e diventa sempre più difficile controllare il territorio se non con un altissimo tributo di sangue e con l’impiego di enormi risorse militari che il Portogallo non disponeva. La guerra nelle colonie finì per assorbire quasi la metà delle entrate statali4. Gli effetti di una guerra interminabile ostinatamente perseguita provocherà fratture sempre più profonde nella società portoghese, anche all’interno del blocco storico che per quasi cinquant’anni aveva sostenuto il regime. Il protrarsi del conflitto e gli effetti devastanti sulla popolazione, soprattutto sui giovani che venivano chiamati a parteciparvi con una leva della durata di quattro anni, di cui almeno due da passare al fronte in Africa, con il suo tributo di morti e di invalidi che tornavano in patria, portò – a partire dal 1965 – ad un crescente numero di diserzioni e di fuga all’estero di giovani per evitare la coscrizione. Sanchez Cervelló cifra in 107.000 i disertori nell’arco dell’intero conflitto5. Segnali di insofferenza fra il regime e il mondo militare erano sorti nel corso della crisi nei possedimenti portoghesi in India quando Salazar avrebbe voluto delle vittime sacrificali per la difesa dei territori che si sarebbero comunque perduti anziché la inevitabile resa dinanzi ad una soverchiante disparità delle forze in campo6

Non è difficile comprendere quindi come divenisse sempre più difficile trovare cadetti per le accademie militari di ufficiali e sottoufficiali e i maldestri tentativi fatti dal governo di Marcelo Caetano, il successore di Salazar7, complicarono anziché risolvere il problema alienandosi sempre più il sostegno di ampie fasce dell’esercito. Nel tentativo di rendere appetibile la carriera militare per i giovani con istruzione superiore vennero proposti privilegi retributivi e contributivi e una rapida possibilità di carriera agli ufficiali di complemento che, in questo modo, avrebbero goduto di un percorso preferenziale rispetto agli ufficiali provenienti dalle accademie. La decisione portò ad una sollevazione fra gli ufficiali di carriera che reagirono con numerosi atti di insubordinazione, specie fra gli ufficiali di stanza nei fronti di guerra che obbligarono il governo ad una retromarcia che, ovviamente, generò nuove proteste. Il governo di Caetano mantenne la linea oltranzista sulla guerra e il rifiuto di qualsiasi ipotesi, anche la più moderata, di negoziato con le forze indipendentiste dei territori d’oltremare, rivelandosi sordo a tutte le voci che si levavano dai quei quadri dell’esercito che riconoscevano l’impossibilità di porre fine vittoriosamente ai conflitti e che reclamavano una soluzione politica negoziata. Fra questi quadri andava perciò maturando la convinzione che l’unica risposta era l’abbattimento del regime.

Uno strano golpe

Il 25 aprile 1974 era iniziato da pochi minuti quando il giornalista Leite de Vasconcelos della emittente cattolica Rádio Renascença lesse in diretta la prima strofa della canzone Grândola Vila Morena8 e a seguire la mandava in onda: era il segnale atteso dai congiurati che dava inizio al golpe militare.

I reparti sollevati sotto il comando degli ufficiali del MFA (Movimento das Forças Armadas), in prevalenza composto da gradi medio bassi fra gli ufficiali dell’esercito9, cominciarono ad occupare, secondo un piano stabilito nelle settimane precedenti le emittenti radiofoniche e televisive, l’aeroporto di Lisbona, i ministeri. L’MFA aveva stabilito il suo centro operativo nel reggimento di ingegneria a Pontinha, un quartiere di Lisbona, ed il coordinamento era stato affidato al maggiore Otelo Saraiva de Carvalho. Gli obiettivi – con la sola eccezione della sede della PIDE/DGS (Polizia politica del regime) – furono occupati già nelle prime ore del 25 aprile e la piazza antistante la sede del governo (Terreiro do Paço) venne presidiata dai militari insorti. Nelle stesse ore operazioni analoghe vennero attuate ad Oporto dove le sedi televisive e radiofoniche e la sede della PIDE furono occupate senza resistenze.

Tutte le operazioni avvennero senza reazioni significative, anzi sembrava che gli uomini del regime non se ne accorgessero e alle 4:20 venne trasmesso il primo comunicato del MFA dalle frequenze della RPC Radio Club Portugues, sarà il giornalista Joaquín Furtado a leggerlo. Il testo del primo comunicato era neutro, invitava soltanto la popolazione a rimanere in casa per evitare incidenti e si appellava al buon senso dei comandanti delle forze armate per evitare inutili scontri con i reparti sollevati. Infine venne fatto un appello al personale sanitario di tenersi comunque pronto e disponibile sperando tuttavia che il suo intervento non fosse necessario. 

I programmi delle emittenti radiofoniche furono sostituiti da marce militari, l’intenzione era di non rivelare subito la natura del golpe ed evitare così reazioni violente ed organizzate da parte delle truppe fedeli al regime. Il secondo comunicato del MFA (ore 4:45) invitava la polizia e i reparti che non si erano uniti ai ribelli a rimanere nelle proprie caserme in attesa di nuovi ordini.

Alle 5 del mattino i ministri erano già informati dell’insurrezione e il direttore generale della PIDE/DGS, maggiore Silva Pais, chiamò il capo del governo Marcelo Caetano, lo informò di quanto stava avvenendo e che stavano cercando di capire l’estensione della rivolta. Nel frattempo lo invitò, per precauzione, a rifugiarsi presso la sede della PIDE di Lisbona che non era ancora sotto il controllo dei golpisti.

È uno strano golpe: nonostante lo stato di polizia e la fitta rete di cui disponeva la PIDE, la cospirazione sembrava essere passata in sordina o, più probabilmente, aveva beneficiato dell’acquiescenza di parte degli alti ufficiali dell’esercito che, pur senza farsi coinvolgere, non l’avevano ostacolata10. Del resto, come abbiamo visto, il malessere fra le file dell’esercito era noto da molto tempo e non erano mancati negli ultimi mesi atti di insubordinazione collettiva da parte di ufficiali a cui avevano fatto seguito misure repressive molto blande per evitare una ulteriore radicalizzazione della protesta. Con buona probabilità l’atteggiamento dominante in ampi settori delle forze armate e della polizia fu di attesa per capire quale fosse il carattere del golpe, l’insoddisfazione per la grave crisi che stava vivendo il regime dopo la morte di Salazar era condivisa anche dai settori più retrivi del regime anche se opposte erano le ricette per uscirne. 

I comunicati del MFA che invitavano le forze di polizia e i reparti non sollevati alla calma e ad evitare inutili scontri vennero trasmessi dalle radio ogni 15 minuti. La marina e l’aviazione non reagirono né diedero segnali di rispondere alle richieste del governo. Solamente la fregata Gago Coutihno che stava svolgendo manovre militari con la NATO ricevette l’ordine dal contrammiraglio Jaime Lopez di rientrare e di mettersi alla fonda davanti al Terreiro do Paço e di bombardare le truppe ribelli, ma l’ordine non viene eseguito per il rifiuto dell’equipaggio.

Si dovette attendere fino alle 7:30 del mattino quando un nuovo comunicato del MFA dichiarò che le manovre dei militari sollevati avevano lo scopo di liberare il paese dal regime che lo opprimeva da troppo tempo. Il MFA chiese alla popolazione di rimanere in casa e il comunicato si concludeva con l’esclamazione: Viva il Portogallo! Da quel momento le radio smisero di trasmettere marce militari e le sostituirono con le canzoni fino ad allora proibite dalla censura del regime. La popolazione, nonostante le raccomandazioni, cominciò ad invadere le strade della capitale. Allo stesso modo, alcuni reparti comandati da ufficiali fedeli al regime si mossero verso i luoghi presidiati dai ribelli e si preparavano allo scontro. Verso le 10 del mattino ebbe luogo una delle vicende più iconiche della giornata che confermava che era proprio uno strano golpe: “Il brigadiere11 Junqueira dos Reis avanza con una colonna di soldati delle unità fedeli al regime dotati di diversi carri armati MI47 […]. Il capitano Maia va verso di loro solo, con un fazzoletto bianco, per tentare di convincerli ad unirsi al movimento. In tasca ha una bomba a mano perché ‘non intende cadere prigioniero’. Vi sarà un breve dialogo fra lui e Junqueira do Reis. Il brigadiere gli ordina di arrendersi. Salgueiro Maia gli chiede di parlare. Junqueira dos Reis ordina al suo secondo, il sottotenente Sottomayor di sparargli. Questi si nega e sente l’ordine “Lei è agli arresti”. Il brigadiere ordina agli artiglieri dei carriarmati di sparare al capitano. Anche questi si rifiutano e Junqueria dos Reis decide di fuggire, mentre la colonna si pone volontariamente agli ordini di Salgueiro Maia.12 

È uno strano golpe incruento. Nonostante il grande movimento di truppe per le strade in quella giornata vi furono soltanto quattro morti e qualche ferito, ma si trattò delle ultime vittime del regime in dissoluzione perchè a sparare sulla folla furono gli uomini della PIDE asserragliati nella loro sede assediata dalla popolazione civile che chiedeva la liberazione dei prigionieri politici e l’arresto dei responsabili di tante morti e torture nei lunghi anni della dittatura salazarista. Fu l’ultimo atto violento prima della capitolazione di Caetano che venne messo agli arresti, inviato alle Azzorre e da lì lasciato andare in esilio in Brasile. Erano passati soltanto sette mesi dal golpe cileno le cui immagini dello stadio di Santiago pieno di oppositori fatti prigionieri dai militari avevano fatto il giro del mondo, mentre in Portogallo i golpisti riuniti nella Giunta di Salvezza Nazionale, sciolsero la PIDE/DGS e cominciarono a liberare i prigionieri politici già a partire dal giorno successivo. 

È uno strano golpe perché i golpisti chiedono la fine immediata della censura e la libertà di stampa, di espressione e di riunione, già dal 25 aprile escono i primi giornali senza il carimbo, ovvero il timbro della commissione di censura che ne autorizzava la pubblicazione.

È davvero uno strano golpe se nel corso di quella giornata la popolazione civile intimorita da decenni di repressione poliziesca perde man mano la paura e si avvicina ai soldati che presidiano le strade e comincia a parlare con loro abbandonando la diffidenza quando scopre che non vogliono usare violenza nei loro confronti, bensì porre fine alle violenze. Il clima fra militari ribelli e popolazione diventa festoso e accadde un piccolo gesto che segnerà irrimediabilmente quella giornata memorabile. Una giovane donna, Celeste Martins Caeiro, quel mattino si recò al lavoro come tutti i giorni nel ristorante Franjinhas, un moderno locale self service che proprio quel giorno celebrava il suo primo anniversario dall’apertura. Il titolare dell’esercizio aveva acquistato dei mazzi di garofani per omaggiare le clienti con un fiore, ma vedendo le strade presidiate dall’esercito decise che quel giorno il ristorante sarebbe rimasto chiuso. Lo comunicò al personale e chiese alle dipendenti di prendersi i fiori oramai inutilizzabili. Celeste prese un mazzo di garofani rossi e bianchi e si diresse verso casa, ma volle fare un giro per il centro per vedere cosa stava succedendo. Quando fu a rua do Carmo si rivolse ad un soldato per sapere cosa accadeva, questi le rispose che stavano andando ad arrestare il capo del governo e le chiese una sigaretta. Lei non ne aveva ma gli mise un garofano rosso nella canna del fucile. Il gesto piacque al militare e lei ripetè il gesto mettendo i garofani nelle canne dei fucili di altri suoi commilitoni. In brevissimo tempo quel gesto fu replicato dalle fioraie e le immagini dei soldati con i fucili in spalla ed un garofano che spuntava divennero il simbolo di quel golpe che, con la partecipazione di centinaia di migliaia di persone, si trasformava in Rivoluzione dei garofani13. Quando all’azione dei militari si aggiunge anche l’azione di migliaia di cittadini e cittadine la protesta si trasforma in una festa e il golpe si trasforma in rivoluzione.

Nei giorni immediatamente successivi al 25 aprile cominciarono a rientrare gli esuli politici e un febbrile fermento colse la società portoghese che trovò la sua più netta espressione nella imponente manifestazione che si tenne il primo maggio a Lisbona, istituita come festa solo qualche giorno prima dalla Junta de Salvaçāo Nacional (Giunta di Salvezza Nazionale14) ed iniziò, sotto il controllo del MFA, il Processo Revolucionário em Curso (PREC). Uno dei primi risultati del nuovo corso fu l’avvio dei negoziati con le forze indipendentiste per il riconoscimento dell’indipendenza delle ex colonie e la fine della guerra, era uno dei punti del programma del MFA non negoziabili. Nel frattempo le forze politiche ricominciarono ad organizzarsi liberamente in vista delle elezioni dell’assemblea costituente che avrebbe dovuto dare una nuova carta costituzionale con le elezioni che si sarebbero tenute il 25 aprile dell’anno successivo. Analogamente si riorganizzò il fronte sindacale che vide la nascita di comitati di lotta dei lavoratori che reclamavano una diversa gestione delle fabbriche, delle campagne, delle banche. Il governo controllato dai militari e sotto l’influenza del MFA, riuscì in questa stagione a nazionalizzare le banche e le principali imprese del paese e ad introdurre elementi di socialismo nell’economia portoghese. Il PREC non fu scevro da tensioni e conflitti: un primo tentativo di far virare a destra il governo, capeggiato dal generale Spínola, fallì nel settembre 197515, successivamente fallì il tentativo di dare un indirizzo maggiormente socialista al paese. Il processo rivoluzionario si chiuse definitivamente con le elezioni del 25 aprile 1976 che videro prevalere il socialista Mario Soares e iniziò il processo di avvicinamento ed integrazione del Portogallo nella Comunità Europea che portò progressivamente all’abbandono di qualsiasi influenza dei militari sulla vita civile e della soppressione degli elementi di socialismo precedentemente introdotti.

Quanto si stava sperimentando in Portogallo nei mesi successivi al 25 aprile attirò l’interesse e l’euforia di molti giovani rivoluzionari europei che volevano conoscere da vicino la rivoluzione, in migliaia perciò arrivarono nel paese lusitano dai diversi paesi europei con qualsiasi mezzo16, non senza allertare la polizia franchista che non poteva che guardare con preoccupazione quanto era successo nel paese vicino. Vi è un vecchio adagio spagnolo che dice: “Cuando veas las barbas de tu vecino cortar, pon las tuyas a remojar”17: il profumo dei garofani della rivoluzione avrebbe portato nuova aria anche nella Spagna franchista, ma non fu proprio così, si dovette attendere la morte del dittatore.

BIBLIOGRAFIA:

  • Alambre Carvalho M.P., Otelo de Carvalho, mio padre, Il Manifesto, 28/08/2021
  • Cangianti L., “È stata una cosa meravigliosa!”. A 45 anni dalla rivoluzione portoghese, Carmilla on line, 24/04/2019;
  • Ferrari M., Alla rivoluzione sulla Due Cavalli, Sellerio, Palermo, 1995
  • Frangioni F., Fra europeismo e terzomondismo: il Portogallo e la rivoluzione dei garofani nella sinistra italiana, in Memoria e Ricerca, Fascicolo 2013/44, Franco Angeli, Milano; 2013
  • Garzia A., Prima che a Lisbona i garofani fiorissero lungo le strade, Il Manifesto, 29/07/2020;
  • Irles S., El cabo que no apretó el gatillo, El periodico Internacional, 18/04/2014;
  • Ivani M., I rapporti tra la polizia fascista e la PVDE (1937-1940), Relazione tenuta nel corso del XXXII Encontro da Associação Portuguesa de História Económica e Social, A construção da fortuna e do malogro: perspectivas históricas, ISCTE – Instituto Universitário de Lisboa, 16 e 17 de novembro de 2012;
  • Louçã F. e Rosas F., La (pen)última revolución de Europa. De la revolución de los claveles a la contrarrevolución neoliberal, Editorial Sylone, Barcelona, 2018;
  • Poncini H., Ella es Celeste Caeiro, la mujer que, con un pequeno gesto, dió nombre a la Revolución de los Claveles, El Periodico Internacional, Lisboa, 24/04/2016;
  • Sánchez Cervelló J., La Revolución de los Claveles en Portugal, Cuadernos de Historia n. 33, Arco Libros S.L., Madrid, 1997;
  • Serapiglia D., Il corporativismo lusitano tra il fascio e la croce, in Percorsi. Scienze sociali tra Italia e Portogallo, Quaderni di Storicamente, Bologna, 2017;
  • Tabucchi A., Sostiene Pereira, Feltrinelli, Milano, 1994
  • Teixeira R., Quem é a mulher que deu nome à Revolução dos Cravos em Portugal e hoje vive de pensãoDiario do Centro do Mundo, Brasil, 25/04/2021;
  • de la Torre Gómez H., El portugal de Salazar, Cuadernos de Historia n. 26, Arco Libros S.L., Madrid, 1997;
  • Valentín Ramírez J., Las claves de la Revolución de los Claveles, Circulo Rojo Editorial, Madrid, 2021;

FONTI AUDIOVISUALI:

Sono molteplici i documenti audiovisuali reperibili in rete che riportano immagini e video del periodo, testimonianze di protagonisti e sintesi storiche sulla Rivoluzione dei Garofani più o meno esaustive. 

  • Una sintesi divulgativa sul regime di Salazar e la Rivoluzione dei Garofani in italiano si veda il programma Il tempo e la Storia della RAI con il prof. Mauro Canali del 20/04/2016;
  • Si veda inoltre il film de Medeiros M. (regia), Capitani d’aprile, Portogallo, 2000, il canale youtube ne propone diversi trailers
  • Si veda infine il video di Perelli L.(regia), Portogallo. Nascita della Libertà, AAMOD, Roma, girato nel periodo immediatamente successivo alla Rivoluzione dei Garofani.

NOTE

1 Si veda in proposito Serapiglia D., Il corporativismo lusitano tra il fascio e la croce, in Percorsi. Scienze sociali tra Italia e Portogallo, Quaderni di Storicamente, Bologna, 2017.

2 PolÍcia de Vigilância e Defesa do Estado, il nome fu poi modificato nel 1945 in PIDE, PolÍcia Internacional e de Defesa do Estado.

3 Si veda l’intervista al prof. Mauro Canali nel corso del programma Il tempo e la Storia della RAI del 20/04/2016 e Ivani M., I rapporti tra la polizia fascista e la PVDE (1937-1940), Relazione tenuta nel corso del XXXII Encontro da Associação Portuguesa de História Económica e Social, A construção da fortuna e do malogro: perspectivas históricas, ISCTE – Instituto Universitário de Lisboa, 16 e 17 de novembro de 2012.

4 “Per un piccolo paese con una popolazione in diminuzione (8.851.000 abitanti nel 1960; 8.617.000 nel 1970) e scarsamente sviluppato come il Portogallo, la guerra rappresentò un enorme sforzo umano (800.000 reclutati fra il 1961 e il 1974; 6.340 morti; 112.205 feriti o invalidi; 49.422 combattenti nel 1961; 149090 nel 1973) e finanziario (40% del bilancio statale destinato a spese per la Difesa)” [T.d.A.] pp. 68-69, in de la Torre Gómez H., El portugal de Salazar, Cuadernos de Historia n. 26, Arco Libros S.L., Madrid, 1997.

5 Sánchez Cervelló J., La Revolución de los Claveles en Portugal, Cuadernos de Historia n. 33, Arco Libros S.L., Madrid, 1997, p. 16.

6 Il cosiddetto Stato Portoghese dell’India (composto dalle enclavi di Goa, Damão e Diu) contava di una guarnigione di 4.200 soldati ai quali Salazar aveva chiesto che resistessero fino alla morte. L’invasione indiana avvenne con un esercito di 45.000 effettivi ed una ampia superiorità aerea, navale e di artiglieria che rendevano inutile qualsiasi resistenza e li obbligarono alla resa. Ciò nonostante Salazar considerò che le Forze Armate non avevano saputo difendersi e si disinteressò per molti mesi dei prigionieri e quando furono liberati espulse dall’esercito gli ufficiali responsabili. Cfr. Sánchez Cervelló J., La Revolución de los Claveles en Portugal, cit., p. 15.

7 Salazar rimase vittima nel 1968 di un incidente domestico che lo lasciò totalmente inabile fino alla sua morte nel 1972. Egli perciò dovette essere sostituito e la scelta cade su Marcelo Caetano che guidava l’ala aperturista del regime in opposizione all’ala ultraortodossa. Questi intendeva introdurre alcuni aggiustamenti e qualche timida apertura alle opposizioni che permettessero al regime di sopravvivere alla morte del fondatore. Ben presto però le sue riforme si mostrarono riforme di facciata incapaci di risolvere i gravi problemi della società portoghese, in primo luogo le guerre coloniali.

8 La lettura iniziò alle 00,20. Essa era stata preceduta da un altro segnale alle 22:55 del 24 aprile 1974, quando la Radio Peninsular de Emisoras Asociadas de Lisboa trasmise le seguenti parole: “Mancano 5 minuti per le undici, con voi Paulo de Carvalho” e mette in onda la canzone E depois do adeus, la canzone che quell’anno aveva rappresentato il Portogallo al Festival Eurovision. È il segnale convenuto che indicava ai congiurati di tenersi pronti ed attendere il segnale che dava inizio alla sollevazione militare (Grandola Vila Morena). La canzone era stata scritta nel 1971 da José Zeca Alfonso in omaggio alla Sociedade Musical Fraternidade Operária Grandolense(Grândola è una cittadina del sud del Portogallo), una delle prime cooperative ed associazioni operaie fortemente represse dal regime salazarista. La canzone fu presto proibita dal regime e il suo autore fu interrogato ed incarcerato dalla PIDE, la polizia politica. Grândola Vila Morena si convertì così nella canzone simbolo della rivoluzione dei garofani e divenne l’inno alla libertà del popolo lusitano. È un po’ come per noi Bella Ciao.

9 In prevalenza si tratta di capitani e tenenti dell’esercito, per questo i membri del MFA verranno anche definiti popolarmente Capitāes de Abril [Capitani d’aprile] dal quale prenderà il titolo il film sulla Rivoluzione dei Garofani diretto da Maria de Medeiros che verrà presentato al Festival di Cannes nel 2000.

10 A tal proposito risultano illuminanti le considerazioni di J. Sánchez Cervelló in La Revolución de los Claveles en Portugal, cap. IV La fragilidad del régimen y los apoyos internacionales para su substitución, pp. 33-38.

11 Brigadiere (Brigadeiro): nell’esercito portoghese è un grado di ufficiale superiore al grado di colonnello, cfr. la voce Exército Português in Wikipedia.

12 L’episodio è diventato uno dei simboli della Rivoluzione dei Garofani. Esso è riportato in diversi documenti a partire da quella del suo protagonista, il capitano Salgueiro Maia. Il resoconto qui riportato è tratto da Valentín Ramírez J., Las claves de la Revolución de los Claveles, Círculo Rojo Editorial, Madrid, 2021, pp. 73, la traduzione è mia. Sull’argomento si veda anche Irles S., El cabo que no apretó el gatillo, El periodico Internacional, 18/04/2014 che riporta l’intervista a José Alves Costa.

Si veda infine la narrazione cinematografica dell’episodio nel già citato film di Maria de Medeiros, Capitani d’Aprile in cui il capitano Salgueiro Maia è interpretato da Stefano Accorsi.

13 La vicenda di Celeste dos Cravos, come verrà chiamata Celeste Martins Caeiro, viene celebrata in molti documenti ed anche video disponibili in rete, qui ci limitiamo a due interviste: Poncini H., Ella es Celeste Caeiro, la mujer que, con un pequeno gesto, dió nombre a la Revolución de los Claveles, El Periodico Internacional, Lisboa, 24/04/2016 e Teixeira R., Quem é a mulher que deu nome à Revolução dos Cravos em Portugal e hoje vive de pensão, Diario do Centro do Mundo, Brasil, 25/04/2021.

14 Giunta di Salvezza Nazionale che venne costituita nella giornata del 25 aprile e che avocava a sé i poteri del destituito governo di Caetano, essa era formata da militari di tutte le forze (esercito, marina e aviazione) e presieduta dal Generale Spinola, su volontà del MFA vi erano rappresentate, almeno all’inizio, dalle posizioni più radicali a quelle più conservatrici.

15 Il Generale Spínola fu costretto a dimettersi da Presidente della Repubblica il 30 settembre 1974 e fu sostituito nella carica dal Generale Francisco da Costa Gomes.

16 A titolo di esempio si veda il romanzo di Ferrari M., Alla rivoluzione sulla Due Cavalli, Sellerio, Palermo, 1995.

17 Letteralmente: Quando vedi tagliare la barba del tuo vicino, comincia a mettere a bagno la tua. Il significato è chiaro: quanto ti accade intorno avrà effetti anche su di te ed è meglio se ne fai tesoro e prendi provvedimenti.

NOTE DI REDAZIONE

La foto 25 aprile 1974. La rivoluzione dei garofani e la foto Il capitano Fernando José Salgueiro Maia fotografato durante la Rivoluzione dei Garofani sono tratte da https://lisbona.italiani.it/rivoluzione-dei-garofani-portogallo

La foto Celeste Martins Caeiro mette un garofano rosso sulla canna del fucile è tratta da https://www.elprogreso.es/blog/marta-veiga-nube-toxica/celeste-dos-cravos/201804252331381308892.html

 

lunedì 11 marzo 2024

Paesaggio, Non Luoghi e Periferie: Riflessioni per una nuova geografia della storia locale

 

Il 12 dicembre 2023 si è tenuto un incontro con i soci e le socie di sAm e le persone che seguono le nostre attività per fare il punto delle iniziative portate a termine nel corso dell’anno e di quelle in preparazione. Riproponiamo l’intervento fatto in quell’occasione dal nostro socio Walter Cocco che  suggerisce la lettura di tre testi interessanti per riflettere insieme su alcune questioni riguardanti l’attività associativa.

La ragione che ha portato alla nascita di storiAmestre nel 1988 è l’interesse per la storia, in particolare la storia contemporanea del territorio che ne è l’asse portante. Oltre a ciò, essendo un’associazione che vive e pratica nel territorio, ha sviluppato e mantiene una serie di relazioni con altre associazioni ed ha espresso delle scelte e delle battaglie civili sui temi e questioni che di volta in volta si sono presentati. Non ultima la partecipazione alle iniziative di Riprendiamoci la città.

Proprio in riferimento alla presenza attiva sul territorio di molte associazioni si è ritenuto utile ospitare un dibattito all’interno della festa di storiAmestre lo scorso 28 ottobre, con l’obiettivo di avviare un confronto su come ciascuna si pone dinanzi ai problemi territoriali e su quale mission si dà.

A partire da questo confronto ci siamo chiesti quale contributo può dare un’associazione come la nostra alle iniziative o alle battaglie civili che si profilano nel territorio (e – come vedremo in questo intervento – si parla di territorio nel significato più ampio del termine). 

A parte, ovviamente, la partecipazione e la solidarietà su contenuti condivisi – cosa che tempo per tempo ha sempre fatto – cos’altro può fare storiAmestre? Crediamo che il nostro compito sia continuare – e sottolineiamo continuare perché è un aspetto che è sempre stato praticato da sAm – a riflettere sulle trasformazioni del territorio e sui fenomeni che via via si profilano. Trasformazioni e cambiamenti avvenuti in epoche meno recenti, quelli avvenuti negli ultimi decenni e quelli che sono in corso. Per fare questo – come ricordava Marc Bloch – è necessario che la storiografia si apra ad altre discipline1 mutuando da queste strumenti di analisi e chiavi di lettura dei fenomeni che ci aiutino a leggere il passato e capire il presente. 

L’intervento di Walter Cocco propone proprio alcune di queste chiavi di conoscenza e comprensione e si prefigge di offrire una serie di suggestioni che, si spera, siano utili ad aprire un dibattito su questi temi.

di Walter Cocco

L’osservazione e l’analisi delle trasformazioni urbane e del territorio è un argomento che storiAmestre si è posta sin dal suo nascere ed ha affrontato attraverso l’organizzazione di convegni: citiamo a titolo di esempio quello su Territori inondati. Disastri ambientali, risposte sociali, ruolo delle istituzioni del maggio 2011 o il recentissimo Rinnovare via Piave. Le proposte di tre giovani urbanisti del settembre 2023. A ciò si aggiungono la produzione di lavori – anche qui solo per citarne alcuni – pubblicati nei quaderni di storiAmestre come i recenti: Note mestrine. Cose viste, interventi, ricerche di Claudio Pasqual o Mestre è un goniometro. Note, incontri e sopralluoghi di Piero Brunello e, ancora, i lavori pubblicati sui siti storiamestre.it e ilfiumemarzenego.it

Stasera vorrei proseguire su questa traccia invitando alla lettura di alcuni saggi che mi sembrano molto utili per la riflessione sulle trasformazioni urbane. Si tratta di tre libri, i loro autori sono rispettivamente un geografo, un antropologo e un sociologo e i testi sono stati scritti in tempi diversi e quindi riflettono realtà storiche differenti. Ovviamente mi limiterò a proporre soltanto alcuni dei temi trattati in questi testi, quelli che mi hanno colpito maggiormente.

Il primo libro è di Eugenio Turri e si intitola: Semiologia del paesaggio italiano2. Turri è stato un grande geografo veronese, scomparso nel 2005. La prima edizione del libro è uscita nel 1979 e ci parla di quel grande processo di trasformazione avvenuto in Italia nel secondo dopoguerra meglio conosciuto come miracolo economico o, come lo definisce l’autore, la Grande Trasformazione. Egli ci propone una interessantissima analisi dei cambiamenti avvenuti nel Paese attraverso la radicale trasformazione del paesaggio i cui segni distintivi potremmo riassumere in: capannoni, autostrade, casette-villini, automobili. Al momento in cui egli svolge la sua analisi, le trasformazioni iniziate a partire dai primi anni Cinquanta non si sono ancora concluse. O, per meglio dire, si stava chiudendo il lungo ciclo della contestazione e delle lotte sociali che erano seguite alla industrializzazione del Paese [ricordiamo che la sconfitta operaia della Fiat avverrà nel 1980 con la marcia dei quarantamila quadri e impiegati che segnerá il declino della fabbrica fordista e l’inizio di un lento ma inarrestabile processo di deindustrializzazione e di perdita di potere contrattuale della classe operaia della grande industria che aveva dominato il ventennio precedente]. 

Inoltre, quando Turri scrive questo saggio, è già in atto da tempo l’industrializzazione diffusa e la nascita dei distretti di quella che allora veniva chiamata la Terza Italia; anche se non era ancora esaltata come modello, cosa che avverrà nella seconda metà degli anni Ottanta e negli anni Novanta. Nel contempo si stava imponendo nella società il pensiero unico neoliberista di pari passo alla implosione dell’Unione sovietica e dei paesi socialisti oltrecortina.

Il miracolo economico ha trasformato in pochi anni l’Italia da paese arretrato a economia industriale di prima grandezza. Ha modificato, probabilmente in maniera irreversibile, la sua distribuzione demografica con una migrazione interna epocale, da sud verso nord, dai rilievi alle coste, con fenomeni di inurbamento senza precedenti. Ha cambiato antropologicamente modi di vivere secolari. Ha dato l’assalto al territorio senza alcuna regola e senza darsi una classe dirigente che potesse e volesse affrontare i vecchi ed i nuovi squilibri. Il libro descrive questo processo attraverso le cicatrici lasciate al paesaggio. Come dice lo stesso autore nella sua prefazione all’edizione del 1990: “Della Grande Trasformazione il libro non descrive specificamente i mutamenti sociali, politici o economici, ma rispetto a questi e al conseguente modo di vivere, abitare, usare il territorio racconta come è cambiato il paesaggio, come è stata violentata l’immagine del territorio preesistente, di fronte a un volto ritrasformato o sconvolto. […] Riferirci al paesaggio non è certamente l’unico modo di guardare alle trasformazioni di un paese, ma è un modo estremamente carico di significati. Il paesaggio è sempre il risultato definitivo e incancellabile di ogni trasformazione, lo sbocco ultimo, incarnato nel territorio, di tutto un mutamento avvenuto anteriormente: il mutamento sociale, il mutamento dei modi di produrre, dei modi di abitare, trascorrere i giorni, guardare al mondo e alla vita3”.

E ancora: “Nelle pagine del libro largo spazio è dato a ciò che avveniva ‘dietro’ il paesaggio, al riconfigurarsi territoriale dell’Italia in rapporto a un’economia guidata dalla logica capitalistica da una parte, da quella assistenziale e spesso dissipatoria dello stato dall’altra, con lo spazio intermedio lasciato alla piccola ma rampante imprenditorialità di una fitta schiera di italiani che volevano la fabbrica, la fabbrichetta, il capannone. Oggi i capannoni hanno invaso l’Italia e il paesaggio di capannoni sembra aver sommerso altre e meglio congegnate immagini dell’Italia. La crescita dell’economia è stata tale da recuperare in pochi decenni i ritardi dell’industrializzazione che l’Italia aveva accumulato nei confronti di altri paesi inseriti nell’area forte dell’Europa. Essa è passata al di sopra di ogni istanza correttiva imposta a salvaguardia non solo del paesaggio-immagine, ma delle stesse condizioni ambientali. L’Italia brutta derivata da questo processo di travolgente sviluppo economico era anche l’Italia inquinata, dove risultava difficile vivere bene per una larga parte degli italiani, finiti nelle periferie delle grandi città e lungo le strade di irradiazione degli stessi piccoli centri4”.

Turri introduce già un concetto di periferia come condizione di vita dominante della modernità che mi pare interessante sottolineare: 

I mutamenti – come è ampiamente narrato nel libro – hanno avuto nei decenni scorsi intensità e velocità diverse da zona a zona. Ancor oggi il processo di ispessimento edilizio e di trasformazione territoriale, benchè registri non poche novità, ha una distribuzione legata ai grandi centri urbani, alle direttrici principali che li collegano tra loro, alle linee di costa, alle conche intermontane peninsulari, al pedemonte alpino. […] Questa Italia coinvolta dalle intensificazioni modificatorie copre non meno del 30-40% del paese. È un’Italia ormai simile a un’unica periferia, anonima, poco accogliente, poco ordinata, dove però vive la maggior parte degli italiani e dove si vive in quel modo che si rifà a modelli più o meno omologati a livello nazionale. L’Italia dove si produce di più, dove i redditi pro capite sono più elevati e dove gli italiani hanno perduto molti legami con tradizioni e modi di vita passati (anche se ciò non è avvenuto del tutto). È l’Italia che offre di sé una nuova immagine, che resta nella memoria dei visitatori non meno di quella più prestigiosa e reclamizzata fatta di monumenti, di storiche città o di lembi sopravvissuti del paesaggio rurale di un tempo. L’Italia della confusione automobilistica, del traffico intasato, delle case condominiali senza volto, dei supermercati affollati, delle autostrade che sorvolano le case, dei capannoni industriali appiccicati agli edifici residenziali, degli inquinamenti, dei rumori, delle brutture edilizie, della droga, ecc. Un’Italia percepibile dalle autostrade e dalle strade di maggior traffico, che sono le nervature della sua modernità5”.

Un altro aspetto che ho trovato molto interessante è che l’industrializzazione ha modificato così radicalmente il territorio da estinguere intere comunità o, per meglio dire, per scioglierle in nuove realtà accumunate dagli stessi ritmi produttivi, dagli stessi riti di consumo e di svago, dalle stesse contraddizioni, rifiuti e reazioni:

La nuova mappa dell’industria padana si può tracciare a grandi linee abbastanza facilmente: esclude in generale tutta la bassa pianura, questa sorta di downland, di ‘triangolo’ verde o ‘cuore’ della Padania, inserito all’interno delle grandi direttrici pedemontane che corrono ai piedi delle Alpi e degli Appennini, con i loro perni nella città che vi si succedono una dopo l’altra, città medie e piccole, tutte però con una loro implicita vocazione alle attività non meramente agricole, perché eredi di tradizioni artigianali e industriali, specie nel pedemonte alpino. Questo si diparte da Torino e da Ivrea, congloba l’area metropolitana milanese, appoggiandosi, dopo Varese e Como, a Bergamo, Brescia, Verona, continuando su Vicenza, Bassano, sino al Friuli; un’appendice importante si dirama da Treviso verso Padova e Venezia, che rappresenta il capo portuale della sezione lombardo-veneta, così come Genova lo è rispetto alla sezione lombardo-piemontese. Sul lato appenninico la via Emilia rappresenta, con la sua successione di città, l’altra direttrice dell’industrializzazione, tuttavia più tenue e meno vistosa di quella che si snoda lungo il pedemonte alpino, benché con qualche area di fitta concentrazione, come intorno a Bologna e nel Modenese. Questa propagazione industriale si accompagna parallelamente a quella dell’urbanesimo e del popolamento6“.

E utilizza il concetto di teniapolis per descrivere il territorio compreso fra Trieste, Ravenna e Aosta.

Si può parlare per questi segmenti lineari pedemontani e trasversali nel loro insieme come di megalopoli? Geografi a convegno hanno tentato di delinearla, di individuarla. Non sono risultati d’accordo, sia perché non vi sono nella Padania le dimensioni demografiche complessive della megalopoli (atlantica europea, atlantica americana, giapponese), sia perché vi manca quella forza multipolare propria dei grandi organismi megalopolitani, carenza denunciata del resto dalla stessa crescita lineare, sregolata, informe che, se non controllata, potrebbe preludere – come scrive R. Pracchi – a una ‘megalopoli tragica’. Esiste tuttavia, se non come megalopoli, nel significato tipologicamente assodato, come mini-megalopoli, o anche, se si vuole, come teniapolis. Si tratta infatti di un organismo con forti correlazioni interne e che, se ha le sue basi in alcune aree forti, prevaricanti (la metropoli milanese e torinese), sta oggi via via distribuendo la propria forza urbanizzante in altre direzioni, eliminando o attenuando la spinta polarizzatrice originaria. E infatti Torino e Milano sembrano oggi gradatamente perdere terreno – per fenomeni di rigetto – a favore della crescita di altri nodi urbani, tra i quali emergono con una loro forza di gestione Verona e Padova-Venezia da una parte, Bologna e Modena dall’altra, per rapporto soprattutto alla loro produzione di carrefours padani. Grande organismo a forma di triangolo, il vero triangolo padano (la Padania ha tale forma per dono di natura e la città megalopolitana che si sta delineando si adegua alla triangolarità) è tutt’intorno orlato di montagne, spazi di natura, e ha all’interno un cuore verde: la bassa pianura ricca di prati, di campi, di pioppeti, attraversato da un fiume che è l’asse naturale del grande triangolo e lungo il quale si sviluppa un tenue allineamento di centri, molto discontinui, a dimostrazione che il fiume non ha mai avuto un’azione attrattiva molto forte (almeno se si pensa a certi fiumi europei), in quanto mai inseritosi nella territorialità legata all’industrializzazione, per motivi evidenti. Si può parlare di megalopoli in fieri o di teniapolis perché quando si parla di megalopoli non si dovrebbe intendere una ininterrotta fascia abitativa, ma uno spazio che raccoglie fitti aggregati urbani alternati ad aree verdi, boscose, a piccoli centri, satelliti degli organismi maggiori; dovrebbe significare varietà di insediamento, ma anche ed essenzialmente area e spazio privilegiato dall’uomo, tutt’intero spazio per la città, spazio per una società che vive di relazioni fitte, d’intensa vita civile7”.

Ho scelto di riportare ampi passi tratti dalle pagine di Turri perché evidenziano una tendenza, poi confermatasi negli anni successivi, alla omologazione delle condizioni di vita in un territorio molto ampio di cui fanno parte anche i luoghi in cui noi viviamo caratterizzato dal dilagare delle periferie e nei quali, al di là di alcune specificità che ancora resistono, gli avvenimenti che accadono in un luogo condizionano direttamente altri territori non necessariamente contermini. A titolo di esempio cito soltanto il recente scandalo dei pfas in cui un’industria chimica ubicata nella bassa valle dell’Agno nel vicentino ha per anni inquinato la falda freatica colpendo le popolazioni del basso vicentino, del basso veronese, della bassa padovana fino alla costa veneziana.

Il secondo libro si intitola: Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità8 di Marc Augé, antropologo francese recentemente scomparso (2023), che scrisse questo libro nei primi anni Novanta9, quando cioè si stava già profilando in maniera netta il declino dell’industria fordista. Il processo di deindustrializzazione nei paesi occidentali e la delocalizzazione della produzione in altre aree del mondo era già un fenomeno avanzato, si profilava una globalizzazione sotto l’egida di un neoliberismo trionfante che piegava alle sue regole l’intero pianeta senza trovare resistenza. È in questo contesto di esaltazione dell’individualismo e dell’enorme e costante movimento di merci, capitali e persone che ci si avvicina al nuovo millennio e gli individui entrano nella postmodernità. Il libro inizia con un prologo di poche pagine in cui esemplifica in maniera empirica, semplice e chiara tutti i nonluoghi che Monsieur Pierre Dupont attraversa nel viaggio che ha intrapreso per lavoro. Da qui sviluppa il concetto di nonluogo in un saggio breve, ma molto denso e tutt’altro che semplice. 

Il nonluogo proposto da Augé ha avuto ampia risonanza fra gli studiosi di diverse discipline; il concetto definisce quegli spazi in cui migliaia o milioni di individui si muovono senza (necessariamente) entrare in relazione. Fanno parte dei nonluoghi tutte le strutture contemporanee necessarie alla circolazione di persone e di beni (autostrade, svincoli stradali, aeroporti, stazioni ferroviarie e marittime, centri commerciali, outlet, sale d’aspetto, ecc.). Essi si contrappongono ai luoghi antropologici, ossia a quegli spazi identitari, relazionali e storici10. Si tratta, in estrema sintesi, di spazi e servizi in cui l’individuo si muove e agisce in rapporto diretto attraverso un linguaggio e una simbologia che può leggere e capire senza l’intermediazione, né la relazione con altri soggetti; tali spazi sono simili e perciò riconoscibili e fruibili anche a migliaia di chilometri da casa propria. In essi le persone vi transitano, ma nessuno vi abita11. C’è chi ha messo in dubbio che il concetto di nonluogo sia valido per tutte le situazioni e gli spazi indicati da Augé, per esempio per i Centri Commerciali nei quali qualcuno ha intravisto la nascita di nuove forme di socialità. Su questo punto tornerò più avanti, ma lo stesso Augé aveva avvertito che: nella realtà non esistono, nel senso assoluto del termine, né luoghi né nonluoghi. La coppia luogo/nonluogo è uno strumento di misura del grado di socialità e di simbolizzazione di un dato spazio12

nonluoghi per Augé dominano il vivere degli individui del tempo presente, della postmodernità, anzi – come lui la definisce con un neologismo – della surmodernità:

Di questo tempo sovraccarico di avvenimenti che ingombrano il presente e il passato prossimo ciascuno di noi ha o crede di detenerne l’uso. Cosa che, notiamolo, non può che spingerci a essere ancora più avidi di senso. L’allungamento delle aspettative di vita, il passaggio alla coesistenza abituale non di più di tre generazioni, ma di quattro, sono fattori che progressivamente comportano cambiamenti pratici nell’ordinamento della vita sociale. Parallelamente, tali fattori estendono la memoria collettiva, genealogica e storica, moltiplicano per ogni individuo le occasioni in cui egli può avere la sensazione che la sua storia incroci la Storia e che questa interessi quella. Le sue esigenze e le sue delusioni sono legate al rafforzamento di questa sensazione. È dunque attraverso una figura dell’eccesso – l’eccesso di tempo – che si può cominciare a definire la condizione di surmodernità, suggerendo che, a causa delle sue stesse contraddizioni, essa offre un ottimo terreno di osservazione e un oggetto alla ricerca antropologica nel senso pieno del termine. Si potrebbe dire della surmodernità che essa rappresenti il dritto di una medaglia di cui la postmodernità ci ha presentato solo il rovescio – il positivo di un negativo. Dal punto di vista della surmodernità, la difficoltà di pensare il tempo deriva dalla sovrabbondanza di avvenimenti del mondo contemporaneo e non dal crollo di un’idea di progresso compromessa già da molto, almeno nelle forme caricaturali che ne rendono la denuncia particolarmente facile.

Il tema della storia imminente, della storia che ci tallona (quasi immanente a ogni nostra esigenza quotidiana), appare come preliminare a quello del senso o del non-senso della storia: è, infatti, dalla nostra esigenza di com-prendere tutto il presente che deriva la nostra difficoltà di dare un senso al passato prossimo. La domanda positiva di senso che si manifesta presso gli individui delle società contemporanee (di cui l’ideale democratico è senza dubbio un aspetto essenziale) può spiegare, paradossalmente, i fenomeni talvolta interpretati come segni di una crisi del senso e, per esempio, le delusioni di tutti i delusi della Terra: i delusi del socialismo, i delusi del liberalismo, e ben presto anche i delusi del postcomunismo13”.

Ho scelto di riportare questo lungo passo del libro di Augé sulla surmodernità perché forse ci aiuta a capire perché la dilatazione del presente del vivere contemporaneo ha messo in crisi il rapporto con il passato e, in definitiva, il rapporto con la storia.

Chiudo infine con un’ultima immagine della condizione umana contemporanea che si propone come oggetto di studio degli antropologi, ma anche degli storici:

Un mondo in cui si nasce in clinica e si muore in ospedale, in cui si moltiplicano, con modalità lussuose o inumane, i punti di transito e le occupazioni provvisorie (le catene alberghiere e le occupazioni abusive, i club vacanza e i campi profughi, le bidonville destinate al crollo o a una perennità putrefatta), in cui si sviluppa una fitta rete di mezzi di trasporto che sono anche spazi abitati, in cui grandi magazzini, distributori automatici e carte di credito riannodano i gesti di un commercio «muto», un mondo promesso alla individualità solitaria, al passaggio, al provvisorio e all’effimero propone all’antropologo (ma anche a tutti gli altri) un oggetto nuovo del quale conviene misurare le dimensioni inedite prima di chiedersi di quale sguardo sia passibile14”.

Infine il terzo libro che propongo è Agostino Petrillo, La periferia nuova. Disuguaglianza, spazi, città15. Petrillo insegna sociologia urbana al Politecnico di Milano e da qualche anno è impegnato ad osservare le trasformazioni urbane, in particolare delle periferie; trasformazioni che si sono accentuate dopo la crisi del 2008 che ha messo fine all’euforia neoliberista. Con il sopraggiungere della crisi o per meglio dire delle crisi, è diventato sempre più chiaro che il modello neoliberista di globalizzazione ha accentuato le disuguaglianze dappertutto, sia nei paesi dove queste erano già intollerabili e tali da non favorire una crescita economica e sociale, sia nei paesi come quelli dell’Europa occidentale (in forme diverse anche nei paesi oltrecortina) che nei favolosi trent’anni del dopoguerra avevano sviluppato un’economia industriale e dei servizi universali al cittadino (welfare) che avevano prodotto migliori condizioni di vita per le classe popolari che ora subiscono un generale impoverimento. 

La deindustrializzazione e l’abbandono del modello fordista, l’affermarsi della precarizzazione del lavoro e delle prospettive economiche, l’erosione dei servizi pubblici (istruzione e sanità) a favore di analoghi servizi privatizzati, hanno avuto un enorme impatto sulle periferie, in particolare quelle, enormi, della working class fordista. A questo si aggiunga l’epocale fenomeno migratorio dalle regioni più povere o quelle martoriate da conflitti mai spenti verso i paesi più ricchi nella speranza di trovare pane e pace, iniziato nell’ultimo decennio del ‘900, se non un po’ prima

Petrillo introduce concetti interessanti quali la periferizzazione del territorio urbano e i fenomeni di gentrificazione (usando un orribile termine mutuato dall’inglese gentrification in mancanza di una valida alternativa linguistica) dei centri urbani. Petrillo avverte che è il concetto tradizionale di periferia ad essere superato, essa non è lo spazio inurbato che non è ancora diventato città di un tempo e nemmeno la periferia di quartieri working class che, pur nei limiti e le contraddizioni che potevano esserci, erano in rapporto, magari conflittuale ma costante, con la città. Si pensi ai movimenti di lotta per ottenere servizi pubblici (trasporti, scuole, distretti sanitari) che portavano gli abitanti dei quartieri periferici nelle piazze delle città. In qualche modo il modello di lotta rivendicativa sperimentato nella fabbrica fordista veniva esportato anche nei luoghi di abitazione, coinvolgendo anche i soggetti che vivevano con gli operai e le operaie (coniugi, figli studenti ecc.). La progressiva deindustrializzazione ha mutato di segno quegli stessi quartieri: da un lato la vecchia classe operaia, pur continuando a viverci, è invecchiata ed è andata in pensione oppure è stata espulsa e vive di sussidi di disoccupazione, i figli continuano a vivere in casa perché faticano a trovare un lavoro stabile ed alternano periodi di lavoro precario ad altri di disoccupazione. 

In parte la composizione della popolazione si è modificata con l’arrivo di persone immigrate da altri paesi che prima di ottenere permessi di soggiorno devono vivere con lavori irregolari e sottopagati. Il mutamento delle condizioni economiche degli abitanti e la netta riduzione dei servizi pubblici garantiti peggiorano il vivere dei quartieri popolari, anche di quelli in posizioni relativamente vicine ai centri storici. Le nuove povertà portano spesso alla svendita di immobili per insostenibilità del debito e, nel contempo, il peggioramento di qualità della vita svaluta il valore degli immobili stessi rendendo impossibile per i suoi abitanti abbandonarli. Questo è un fenomeno di periferizzazione e, appunto, colpisce anche aree in posizione relativamente privilegiata la cui svalutazione mette in moto la speculazione fondiaria e l’accaparramento da parte di società immobiliari di immobili che, in un secondo momento, li riqualificano offrendoli ad acquirenti solvibili e modificando l’assetto sociale attraverso la progressiva espulsione dei ceti popolari preesistenti. Questo è un fenomeno di gentrificazione, di sostituzione residenziale da parte di ceti con elevato potere d’acquisto che espellono ceti popolari nelle sole zone appetibili.

Vorrei però proporvi altri due esempi di gentrificazione: li riduco ad un’astrazione per semplificare il ragionamento, ma nella realtà si possono trovare molte situazioni come queste:

Il primo esempio riguarda Montse, una signora settantenne, pensionata, che vive da sola a Barcellona in un palazzo del centro storico in prossimità della spiaggia della Barceloneta. Ha una pensione non molto alta, ma sufficiente per le sue necessità, grazie anche al fatto che il contratto d’affitto dell’appartamento in cui abita è basso. È un contratto senza scadenza sottoscritto molti anni fa e non può essere disdetto a meno che l’affittuario non paghi regolarmente il canone e, in virtù di questo contratto, il suo canone non ha subito gli aumenti iperbolici degli affitti della città. I proprietari le avevano offerto in più occasioni delle somme anche importanti perché liberasse l’appartamento, ma lei ha sempre rifiutato perchè non saprebbe dove andare. Montse vive al terzo piano senza ascensore, finchè le gambe glielo permettono rimarrà a casa sua. Nel ripiano dove vive lei è la sola residente, ci sono altri due appartamenti, ma sono affittati a turisti. Da quando Barcellona è diventata una delle mete turistiche più richieste gli appartamenti sono quasi sempre occupati. A volte ci sono persone gentili, famiglie con ragazzi che salutano, non è come avere dei vicini, ma va bene. Il problema è sorto da quando è diventato di moda venire a Barcellona a fare le feste di addio al celibato e al nubilato. Sempre più spesso nei due appartamenti del pianerottolo arrivano gruppi di ragazzi o ragazze già euforici, già su di giri, tutti vestiti con una maglietta uguale con scritte che ricordano il motivo della loro presenza lì. Questa volta sono in sette, vengono da Bologna, tutti portano la maglietta con scritto “Giorgio cosa stai facendo?”L’appartamento è più grande di quello di Montse, ma sette ragazzi sono molti. Arrivano gridando e ridendo sulle scale, lasciano le valigie e se ne vanno per la città. Rientrano alle quattro del mattino, le voci e le risate sulle scale fanno intuire che hanno brindato. Entrano in casa e, dopo un momento di calma apparente, si sente una musica molto ritmata, sempre più forte e risate. Montse per un po’ resiste ma dopo un’ora non ce la fa più e va a suonare il campanello. Dopo un po’ aprono la porta e lei cerca di spiegare che ormai è mattino e lei ha bisogno di riposare. Le risponde Giorgio che parla un po’ di spagnolo e le dice che si scusa, ma è la sua festa, fra qualche giorno si sposa e ha diritto a far festa; in fin dei conti sono soltanto tre giorni e poi se ne vanno. Montse dice che lo capisce, ma che per lui sono solo tre giorni, ma dopo di lui arriverà Francesca o John o Gilbert per altri tre giorni e per lei non c’è pace.

Il secondo esempio riguarda un borgo sulle colline umbre, un bel borgo medievale, ma ancora vivo. Un bel giorno una coppia inglese vi passa per caso in vacanza. Se ne innamora e l’anno successivo torna e decide di comprare casa, ne trovano una non più abitata e la pagano bene. Col tempo fanno fare dei lavori di recupero e la sistemano molto bene rispettando la costruzione originale. Un bel esempio anche per le altre case. Via via arrivano altri inglesi che si innamorano del luogo e comprano altre case e le ristrutturano con gusto. Il luogo piace proprio a molti, un’agenzia si è specializzata ed ha pubblicizzato il borgo in Gran Bretagna, i prezzi continuano a crescere e anche chi ci viveva decide di vendere, con quei prezzi si compra a valle un appartamento nuovo, moderno e rimane loro anche del denaro per il futuro. Ormai nel borgo è più facile sentir parlare inglese che il dialetto del posto, ma il borgo è vivo solo qualche mese all’anno durante l’estate, quando i nuovi proprietari vengono in vacanza. Così anche il bar trattoria, che prima funzionava tutto l’anno, ora apre solo d’estate e poco più. Negli altri mesi avrebbe poca clientela e il proprietario ne ha aperto un altro a valle dove lavora nei mesi morti, lo stesso ha fatto il pizzicagnolo. Ecco così che anche chi non voleva andarsene alla fine comincia a pensare di vendere, almeno finché pagano bene la casa. Paradossalmente ora il borgo è più bello di prima, ma è una città fantasma per buona parte dell’anno.

Fenomeni come quelli qui descritti, in forma più o meno accentuata, si ripetono in tutti i centri storici delle città o dei luoghi ad alta attrazione turistica. Li potremmo far rientrare nella categoria dei nonluoghi

Nel primo esempio per Giorgio ed amici sicuramente sì, è vero che loro stanno socializzando, la loro amicizia è alimentata da questa occasione, ma il luogo è indifferente, potrebbero essere lì come in un’altra parte del mondo, avrebbero contrattato con le stesse modalità la locazione dell’appartamento e le persone che vivono nei paraggi sono loro indifferenti, quando non sono addirittura una molestia perché criticano il loro modo di divertirsi. E per Montse? È casa sua, ma l’assenza di vicini stabili con cui intessere relazioni di vicinato non erode in qualche modo il suo mondo? Una situazione altrettanto spuria si crea anche nel borgo umbro nei mesi in cui riprende vita.

Per chiudere torno sulla questione dei Centri Commerciali perché l’argomento non è nuovo per storiAmestre; il nostro socio Claudio Pasqual già nel dicembre 2016 aveva proposto la costituzione di un gruppo di studio all’interno della nostra associazione che analizzasse il fenomeno e lo fece con una importante riflessione che vi riporto:

la grande distribuzione si è proposta e si propone come volano e catalizzatore di sviluppo. Da un lato essa è fattore di agglutinazione in area suburbana e periurbana di nuovi insediamenti di servizi e residenzialità, dall’altro è motore di profonde modificazioni dei comportamenti sociali e delle forme e modalità di fruizione collettiva degli spazi urbani: lo scivolamento dalla città storica alla cintura periferica dell’agglomerato urbano del baricentro della vita cittadina rispetto ad ambiti di primaria importanza, quali consumi e tempo libero, cui aggiungere lo sbarco recente di altre funzioni, direzionali-amministrative, sanitarie, culturali, turistico-ricettive, persino di residenzialità privata; con un effetto di risucchio verso questi poli dei flussi di persone e del traffico veicolare, della congestione della rete stradale nelle aree, dell’impoverimento del tessuto commerciale e della perdita di tono della vita sociale e culturale del centro cittadino. E i cambiamenti in corso hanno agito a pensarci bene a livelli più profondi ancora, antropologici e sociologici. Si è considerevolmente accresciuta a scapito di altre sfere dell’esperienza umana la dimensione dell’individuo consumatore. Su un altro versante, la fortunata categoria di “non luoghi” (Augé), se si mantiene attuale per altre realtà – stazioni, aeroporti, aree autostradali di servizio -, non appare più adatta a descrivere i centri commerciali. Questi spazi sembrano diventati luoghi di socialità: ci si va anche, spesso soltanto, per sorseggiare un caffè e far quattro chiacchiere ai tavoli del bar con amici e parenti, per il rito dello spritz, anche solamente per passeggiare e guardar le vetrine come nelle strade e piazze della città reale.

Dunque capire la recente evoluzione della nostra città significa anche indagare le più recenti espansioni urbane a vocazione commerciale – direzionale nelle loro ragioni, formazione e sviluppi: gli attori privati e pubblici coinvolti (amministrazioni locali e regionali, soggetti imprenditoriali, organizzazioni sociali), gli interessi in gioco, le dinamiche politiche ed economico-sociali”.

Vorrei aggiungere un altro elemento di riflessione leggendovi il testo di un cartello apposto in vari punti dell’area antistante il Centro Commerciale Le Piramidi, uno dei primi Centri Commerciali aperti in Italia: “È assolutamente VIETATO qualsiasi tipo di volantinaggio all’interno dei parcheggi del centro acquisti Le Piramidi”, ovviamente se non è permesso fuori figuriamoci dentro. È proprietà privata e lì si va per comprare non per fare politica o per diffondere un pensiero o fare delle iniziative. È questo il punto più importante che distingue un Centro Commerciale da una piazza o da un mercato in piazza, la privatizzazione di uno spazio pubblico. Petrillo afferma a questo proposito che: “Lo spazio pubblico è stato frequentemente immolato ai privati e trasformato in un luogo di consumo che del pubblico ha mantenuto solo le parvenze. […] La privatizzazione dello spazio pubblico comporta quindi una riduzione delle funzioni da esso svolte, dato che la proprietà privata si propone prima di tutto di realizzare profitti, economizzare, commercializzare, non ha certo a cuore le funzioni sociali generali, come ad esempio la funzione di socializzazione svolta dallo spazio pubblico o la funzione culturale per non parlare di quella politica. Per questo insieme di motivi gli spazi pubblici privatizzati sono inumani, sterilizzati, privi di possibilità di contatto, ne vengono banditi mendicanti e senza tetto, finiscono per essere sorvegliati e presidiati da guardiani e polizie private16”.

Mi viene da pensare quali sono le differenze fra una persona che andava in città per fare acquisti e una che ora va al Centro Commerciale. Apparentemente nessuna, tuttavia se andava al mercato in città sapeva che poteva incontrare persone che erano lì per comprare come lui/lei, ma potevano essere lì per fare quattro chiacchere, oppure perché attratti da una manifestazione convocata (non necessariamente un corteo, potrebbe essere un concerto o una processione religiosa). Insomma correva il rischio di incrociare altre persone che erano lì con scopi diversi dai suoi che l’avrebbero infastidito o affascinato, ma la cui presenza veniva avvertiva come legittima. Se invece si sposta in un Centro Commerciale (e lo fa quasi esclusivamente con un mezzo privato, è difficile andarci con mezzi pubblici) va lì con l’idea di andare a fare acquisti o, se non ha soldi, di guardare i negozi, magari per pianificare acquisti futuri, ma non si aspetta e non vuole incrociare persone che stanno facendo cose diverse. Intendo dire che troverebbe fuori luogo un comportamento diverso dallo shopping o dal guardare le vetrine. Non tollererebbe persone che lo/la vogliono distrarre dal suo obiettivo. Si tratta di una “gigantesca impresa di privatizzazione del tempo libero e della dimensione dell’incontro materializzatasi nelle cattedrali dei consumi e nei centri commerciali17”. Non è escluso perciò che nei Centri Commerciali avvengano incontri e si crei una certa forma di socialità, tuttavia essa dovrà sottostare ai dettati della proprietà.

NOTE

1 Bloch M., Apologia della storia o mestiere di storico, Einaudi, Torino, 1978 pp. 72, 73

2 Turri E., Semiologia del paesaggio italiano, Longanesi, Milano, 1990 [I Edizione 1979]

3 Ibidem, prefazione p. III.

4 Ibidem, prefazione p. XIV.

5 Ibidem, prefazione p. XVIII.

6 Ibidem, pp. 192-193.

7 Ibidem, pp. 197-198.

8 Augé M., Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Eleuthera, Milano, II edizione 2009 [I edizione 1993].

9 La prima edizione francese è del 1992.

10 “Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi identitario, relazionale e storico definirà un nonluogo”, ibidem, p. 87.

11 Per una efficace sintesi sul concetto, si veda anche wikipedia la voce: nonluogo, ultimo accesso 7/01/2024.

12 Augé M., Non luoghi…, cit. p. 8 prefazione all’edizione del 2009. Si veda anche nel testo originale pp. 77-78: “Luogo e nonluogo sono piuttosto delle polarità sfuggenti: il primo non è mai completamente cancellato e il secondo non si compie mai totalmente; palinsesti in cui si reinscrive incessantemente il gioco misto dell’identità e della relazione”.

13 Ibidem, pp. 44-45.

14 Ibidem, p. 77.

15 Petrillo A., La periferia nuova. Disuguaglianza, spazi, città, Franco Angeli, Milano, I Edizione 2018.

16 Ibidem, p. 132.

17 Ibidem, p. 131.