Il 12 dicembre 2023 si è tenuto un incontro con i soci e le socie di sAm e le persone che seguono le nostre attività per fare il punto delle iniziative portate a termine nel corso dell’anno e di quelle in preparazione. Riproponiamo l’intervento fatto in quell’occasione dal nostro socio Walter Cocco che suggerisce la lettura di tre testi interessanti per riflettere insieme su alcune questioni riguardanti l’attività associativa.
La ragione che ha portato alla nascita di storiAmestre nel 1988 è l’interesse per la storia, in particolare la storia contemporanea del territorio che ne è l’asse portante. Oltre a ciò, essendo un’associazione che vive e pratica nel territorio, ha sviluppato e mantiene una serie di relazioni con altre associazioni ed ha espresso delle scelte e delle battaglie civili sui temi e questioni che di volta in volta si sono presentati. Non ultima la partecipazione alle iniziative di Riprendiamoci la città.
Proprio in riferimento alla presenza attiva sul territorio di molte associazioni si è ritenuto utile ospitare un dibattito all’interno della festa di storiAmestre lo scorso 28 ottobre, con l’obiettivo di avviare un confronto su come ciascuna si pone dinanzi ai problemi territoriali e su quale mission si dà.
A partire da questo confronto ci siamo chiesti quale contributo può dare un’associazione come la nostra alle iniziative o alle battaglie civili che si profilano nel territorio (e – come vedremo in questo intervento – si parla di territorio nel significato più ampio del termine).
A parte, ovviamente, la partecipazione e la solidarietà su contenuti condivisi – cosa che tempo per tempo ha sempre fatto – cos’altro può fare storiAmestre? Crediamo che il nostro compito sia continuare – e sottolineiamo continuare perché è un aspetto che è sempre stato praticato da sAm – a riflettere sulle trasformazioni del territorio e sui fenomeni che via via si profilano. Trasformazioni e cambiamenti avvenuti in epoche meno recenti, quelli avvenuti negli ultimi decenni e quelli che sono in corso. Per fare questo – come ricordava Marc Bloch – è necessario che la storiografia si apra ad altre discipline mutuando da queste strumenti di analisi e chiavi di lettura dei fenomeni che ci aiutino a leggere il passato e capire il presente.
L’intervento di Walter Cocco propone proprio alcune di queste chiavi di conoscenza e comprensione e si prefigge di offrire una serie di suggestioni che, si spera, siano utili ad aprire un dibattito su questi temi.
di Walter Cocco
L’osservazione e l’analisi delle trasformazioni urbane e del territorio è un argomento che storiAmestre si è posta sin dal suo nascere ed ha affrontato attraverso l’organizzazione di convegni: citiamo a titolo di esempio quello su Territori inondati. Disastri ambientali, risposte sociali, ruolo delle istituzioni del maggio 2011 o il recentissimo Rinnovare via Piave. Le proposte di tre giovani urbanisti del settembre 2023. A ciò si aggiungono la produzione di lavori – anche qui solo per citarne alcuni – pubblicati nei quaderni di storiAmestre come i recenti: Note mestrine. Cose viste, interventi, ricerche di Claudio Pasqual o Mestre è un goniometro. Note, incontri e sopralluoghi di Piero Brunello e, ancora, i lavori pubblicati sui siti storiamestre.it e ilfiumemarzenego.it.
Stasera vorrei proseguire su questa traccia invitando alla lettura di alcuni saggi che mi sembrano molto utili per la riflessione sulle trasformazioni urbane. Si tratta di tre libri, i loro autori sono rispettivamente un geografo, un antropologo e un sociologo e i testi sono stati scritti in tempi diversi e quindi riflettono realtà storiche differenti. Ovviamente mi limiterò a proporre soltanto alcuni dei temi trattati in questi testi, quelli che mi hanno colpito maggiormente.
Il primo libro è di Eugenio Turri e si intitola: “Semiologia del paesaggio italiano. Turri è stato un grande geografo veronese, scomparso nel 2005. La prima edizione del libro è uscita nel 1979 e ci parla di quel grande processo di trasformazione avvenuto in Italia nel secondo dopoguerra meglio conosciuto come miracolo economico o, come lo definisce l’autore, la Grande Trasformazione. Egli ci propone una interessantissima analisi dei cambiamenti avvenuti nel Paese attraverso la radicale trasformazione del paesaggio i cui segni distintivi potremmo riassumere in: capannoni, autostrade, casette-villini, automobili. Al momento in cui egli svolge la sua analisi, le trasformazioni iniziate a partire dai primi anni Cinquanta non si sono ancora concluse. O, per meglio dire, si stava chiudendo il lungo ciclo della contestazione e delle lotte sociali che erano seguite alla industrializzazione del Paese [ricordiamo che la sconfitta operaia della Fiat avverrà nel 1980 con la marcia dei quarantamila quadri e impiegati che segnerá il declino della fabbrica fordista e l’inizio di un lento ma inarrestabile processo di deindustrializzazione e di perdita di potere contrattuale della classe operaia della grande industria che aveva dominato il ventennio precedente].
Inoltre, quando Turri scrive questo saggio, è già in atto da tempo l’industrializzazione diffusa e la nascita dei distretti di quella che allora veniva chiamata la Terza Italia; anche se non era ancora esaltata come modello, cosa che avverrà nella seconda metà degli anni Ottanta e negli anni Novanta. Nel contempo si stava imponendo nella società il pensiero unico neoliberista di pari passo alla implosione dell’Unione sovietica e dei paesi socialisti oltrecortina.
Il miracolo economico ha trasformato in pochi anni l’Italia da paese arretrato a economia industriale di prima grandezza. Ha modificato, probabilmente in maniera irreversibile, la sua distribuzione demografica con una migrazione interna epocale, da sud verso nord, dai rilievi alle coste, con fenomeni di inurbamento senza precedenti. Ha cambiato antropologicamente modi di vivere secolari. Ha dato l’assalto al territorio senza alcuna regola e senza darsi una classe dirigente che potesse e volesse affrontare i vecchi ed i nuovi squilibri. Il libro descrive questo processo attraverso le cicatrici lasciate al paesaggio. Come dice lo stesso autore nella sua prefazione all’edizione del 1990: “Della Grande Trasformazione il libro non descrive specificamente i mutamenti sociali, politici o economici, ma rispetto a questi e al conseguente modo di vivere, abitare, usare il territorio racconta come è cambiato il paesaggio, come è stata violentata l’immagine del territorio preesistente, di fronte a un volto ritrasformato o sconvolto. […] Riferirci al paesaggio non è certamente l’unico modo di guardare alle trasformazioni di un paese, ma è un modo estremamente carico di significati. Il paesaggio è sempre il risultato definitivo e incancellabile di ogni trasformazione, lo sbocco ultimo, incarnato nel territorio, di tutto un mutamento avvenuto anteriormente: il mutamento sociale, il mutamento dei modi di produrre, dei modi di abitare, trascorrere i giorni, guardare al mondo e alla vita”.
E ancora: “Nelle pagine del libro largo spazio è dato a ciò che avveniva ‘dietro’ il paesaggio, al riconfigurarsi territoriale dell’Italia in rapporto a un’economia guidata dalla logica capitalistica da una parte, da quella assistenziale e spesso dissipatoria dello stato dall’altra, con lo spazio intermedio lasciato alla piccola ma rampante imprenditorialità di una fitta schiera di italiani che volevano la fabbrica, la fabbrichetta, il capannone. Oggi i capannoni hanno invaso l’Italia e il paesaggio di capannoni sembra aver sommerso altre e meglio congegnate immagini dell’Italia. La crescita dell’economia è stata tale da recuperare in pochi decenni i ritardi dell’industrializzazione che l’Italia aveva accumulato nei confronti di altri paesi inseriti nell’area forte dell’Europa. Essa è passata al di sopra di ogni istanza correttiva imposta a salvaguardia non solo del paesaggio-immagine, ma delle stesse condizioni ambientali. L’Italia brutta derivata da questo processo di travolgente sviluppo economico era anche l’Italia inquinata, dove risultava difficile vivere bene per una larga parte degli italiani, finiti nelle periferie delle grandi città e lungo le strade di irradiazione degli stessi piccoli centri”.
Turri introduce già un concetto di periferia come condizione di vita dominante della modernità che mi pare interessante sottolineare:
“I mutamenti – come è ampiamente narrato nel libro – hanno avuto nei decenni scorsi intensità e velocità diverse da zona a zona. Ancor oggi il processo di ispessimento edilizio e di trasformazione territoriale, benchè registri non poche novità, ha una distribuzione legata ai grandi centri urbani, alle direttrici principali che li collegano tra loro, alle linee di costa, alle conche intermontane peninsulari, al pedemonte alpino. […] Questa Italia coinvolta dalle intensificazioni modificatorie copre non meno del 30-40% del paese. È un’Italia ormai simile a un’unica periferia, anonima, poco accogliente, poco ordinata, dove però vive la maggior parte degli italiani e dove si vive in quel modo che si rifà a modelli più o meno omologati a livello nazionale. L’Italia dove si produce di più, dove i redditi pro capite sono più elevati e dove gli italiani hanno perduto molti legami con tradizioni e modi di vita passati (anche se ciò non è avvenuto del tutto). È l’Italia che offre di sé una nuova immagine, che resta nella memoria dei visitatori non meno di quella più prestigiosa e reclamizzata fatta di monumenti, di storiche città o di lembi sopravvissuti del paesaggio rurale di un tempo. L’Italia della confusione automobilistica, del traffico intasato, delle case condominiali senza volto, dei supermercati affollati, delle autostrade che sorvolano le case, dei capannoni industriali appiccicati agli edifici residenziali, degli inquinamenti, dei rumori, delle brutture edilizie, della droga, ecc. Un’Italia percepibile dalle autostrade e dalle strade di maggior traffico, che sono le nervature della sua modernità”.
Un altro aspetto che ho trovato molto interessante è che l’industrializzazione ha modificato così radicalmente il territorio da estinguere intere comunità o, per meglio dire, per scioglierle in nuove realtà accumunate dagli stessi ritmi produttivi, dagli stessi riti di consumo e di svago, dalle stesse contraddizioni, rifiuti e reazioni:
“La nuova mappa dell’industria padana si può tracciare a grandi linee abbastanza facilmente: esclude in generale tutta la bassa pianura, questa sorta di downland, di ‘triangolo’ verde o ‘cuore’ della Padania, inserito all’interno delle grandi direttrici pedemontane che corrono ai piedi delle Alpi e degli Appennini, con i loro perni nella città che vi si succedono una dopo l’altra, città medie e piccole, tutte però con una loro implicita vocazione alle attività non meramente agricole, perché eredi di tradizioni artigianali e industriali, specie nel pedemonte alpino. Questo si diparte da Torino e da Ivrea, congloba l’area metropolitana milanese, appoggiandosi, dopo Varese e Como, a Bergamo, Brescia, Verona, continuando su Vicenza, Bassano, sino al Friuli; un’appendice importante si dirama da Treviso verso Padova e Venezia, che rappresenta il capo portuale della sezione lombardo-veneta, così come Genova lo è rispetto alla sezione lombardo-piemontese. Sul lato appenninico la via Emilia rappresenta, con la sua successione di città, l’altra direttrice dell’industrializzazione, tuttavia più tenue e meno vistosa di quella che si snoda lungo il pedemonte alpino, benché con qualche area di fitta concentrazione, come intorno a Bologna e nel Modenese. Questa propagazione industriale si accompagna parallelamente a quella dell’urbanesimo e del popolamento“.
E utilizza il concetto di teniapolis per descrivere il territorio compreso fra Trieste, Ravenna e Aosta.
“Si può parlare per questi segmenti lineari pedemontani e trasversali nel loro insieme come di megalopoli? Geografi a convegno hanno tentato di delinearla, di individuarla. Non sono risultati d’accordo, sia perché non vi sono nella Padania le dimensioni demografiche complessive della megalopoli (atlantica europea, atlantica americana, giapponese), sia perché vi manca quella forza multipolare propria dei grandi organismi megalopolitani, carenza denunciata del resto dalla stessa crescita lineare, sregolata, informe che, se non controllata, potrebbe preludere – come scrive R. Pracchi – a una ‘megalopoli tragica’. Esiste tuttavia, se non come megalopoli, nel significato tipologicamente assodato, come mini-megalopoli, o anche, se si vuole, come teniapolis. Si tratta infatti di un organismo con forti correlazioni interne e che, se ha le sue basi in alcune aree forti, prevaricanti (la metropoli milanese e torinese), sta oggi via via distribuendo la propria forza urbanizzante in altre direzioni, eliminando o attenuando la spinta polarizzatrice originaria. E infatti Torino e Milano sembrano oggi gradatamente perdere terreno – per fenomeni di rigetto – a favore della crescita di altri nodi urbani, tra i quali emergono con una loro forza di gestione Verona e Padova-Venezia da una parte, Bologna e Modena dall’altra, per rapporto soprattutto alla loro produzione di carrefours padani. Grande organismo a forma di triangolo, il vero triangolo padano (la Padania ha tale forma per dono di natura e la città megalopolitana che si sta delineando si adegua alla triangolarità) è tutt’intorno orlato di montagne, spazi di natura, e ha all’interno un cuore verde: la bassa pianura ricca di prati, di campi, di pioppeti, attraversato da un fiume che è l’asse naturale del grande triangolo e lungo il quale si sviluppa un tenue allineamento di centri, molto discontinui, a dimostrazione che il fiume non ha mai avuto un’azione attrattiva molto forte (almeno se si pensa a certi fiumi europei), in quanto mai inseritosi nella territorialità legata all’industrializzazione, per motivi evidenti. Si può parlare di megalopoli in fieri o di teniapolis perché quando si parla di megalopoli non si dovrebbe intendere una ininterrotta fascia abitativa, ma uno spazio che raccoglie fitti aggregati urbani alternati ad aree verdi, boscose, a piccoli centri, satelliti degli organismi maggiori; dovrebbe significare varietà di insediamento, ma anche ed essenzialmente area e spazio privilegiato dall’uomo, tutt’intero spazio per la città, spazio per una società che vive di relazioni fitte, d’intensa vita civile”.
Ho scelto di riportare ampi passi tratti dalle pagine di Turri perché evidenziano una tendenza, poi confermatasi negli anni successivi, alla omologazione delle condizioni di vita in un territorio molto ampio di cui fanno parte anche i luoghi in cui noi viviamo caratterizzato dal dilagare delle periferie e nei quali, al di là di alcune specificità che ancora resistono, gli avvenimenti che accadono in un luogo condizionano direttamente altri territori non necessariamente contermini. A titolo di esempio cito soltanto il recente scandalo dei pfas in cui un’industria chimica ubicata nella bassa valle dell’Agno nel vicentino ha per anni inquinato la falda freatica colpendo le popolazioni del basso vicentino, del basso veronese, della bassa padovana fino alla costa veneziana.
Il secondo libro si intitola: Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità di Marc Augé, antropologo francese recentemente scomparso (2023), che scrisse questo libro nei primi anni Novanta, quando cioè si stava già profilando in maniera netta il declino dell’industria fordista. Il processo di deindustrializzazione nei paesi occidentali e la delocalizzazione della produzione in altre aree del mondo era già un fenomeno avanzato, si profilava una globalizzazione sotto l’egida di un neoliberismo trionfante che piegava alle sue regole l’intero pianeta senza trovare resistenza. È in questo contesto di esaltazione dell’individualismo e dell’enorme e costante movimento di merci, capitali e persone che ci si avvicina al nuovo millennio e gli individui entrano nella postmodernità. Il libro inizia con un prologo di poche pagine in cui esemplifica in maniera empirica, semplice e chiara tutti i nonluoghi che Monsieur Pierre Dupont attraversa nel viaggio che ha intrapreso per lavoro. Da qui sviluppa il concetto di nonluogo in un saggio breve, ma molto denso e tutt’altro che semplice.
Il nonluogo proposto da Augé ha avuto ampia risonanza fra gli studiosi di diverse discipline; il concetto definisce quegli spazi in cui migliaia o milioni di individui si muovono senza (necessariamente) entrare in relazione. Fanno parte dei nonluoghi tutte le strutture contemporanee necessarie alla circolazione di persone e di beni (autostrade, svincoli stradali, aeroporti, stazioni ferroviarie e marittime, centri commerciali, outlet, sale d’aspetto, ecc.). Essi si contrappongono ai luoghi antropologici, ossia a quegli spazi identitari, relazionali e storici. Si tratta, in estrema sintesi, di spazi e servizi in cui l’individuo si muove e agisce in rapporto diretto attraverso un linguaggio e una simbologia che può leggere e capire senza l’intermediazione, né la relazione con altri soggetti; tali spazi sono simili e perciò riconoscibili e fruibili anche a migliaia di chilometri da casa propria. In essi le persone vi transitano, ma nessuno vi abita. C’è chi ha messo in dubbio che il concetto di nonluogo sia valido per tutte le situazioni e gli spazi indicati da Augé, per esempio per i Centri Commerciali nei quali qualcuno ha intravisto la nascita di nuove forme di socialità. Su questo punto tornerò più avanti, ma lo stesso Augé aveva avvertito che: “nella realtà non esistono, nel senso assoluto del termine, né luoghi né nonluoghi. La coppia luogo/nonluogo è uno strumento di misura del grado di socialità e di simbolizzazione di un dato spazio”
I nonluoghi per Augé dominano il vivere degli individui del tempo presente, della postmodernità, anzi – come lui la definisce con un neologismo – della surmodernità:
“Di questo tempo sovraccarico di avvenimenti che ingombrano il presente e il passato prossimo ciascuno di noi ha o crede di detenerne l’uso. Cosa che, notiamolo, non può che spingerci a essere ancora più avidi di senso. L’allungamento delle aspettative di vita, il passaggio alla coesistenza abituale non di più di tre generazioni, ma di quattro, sono fattori che progressivamente comportano cambiamenti pratici nell’ordinamento della vita sociale. Parallelamente, tali fattori estendono la memoria collettiva, genealogica e storica, moltiplicano per ogni individuo le occasioni in cui egli può avere la sensazione che la sua storia incroci la Storia e che questa interessi quella. Le sue esigenze e le sue delusioni sono legate al rafforzamento di questa sensazione. È dunque attraverso una figura dell’eccesso – l’eccesso di tempo – che si può cominciare a definire la condizione di surmodernità, suggerendo che, a causa delle sue stesse contraddizioni, essa offre un ottimo terreno di osservazione e un oggetto alla ricerca antropologica nel senso pieno del termine. Si potrebbe dire della surmodernità che essa rappresenti il dritto di una medaglia di cui la postmodernità ci ha presentato solo il rovescio – il positivo di un negativo. Dal punto di vista della surmodernità, la difficoltà di pensare il tempo deriva dalla sovrabbondanza di avvenimenti del mondo contemporaneo e non dal crollo di un’idea di progresso compromessa già da molto, almeno nelle forme caricaturali che ne rendono la denuncia particolarmente facile.
Il tema della storia imminente, della storia che ci tallona (quasi immanente a ogni nostra esigenza quotidiana), appare come preliminare a quello del senso o del non-senso della storia: è, infatti, dalla nostra esigenza di com-prendere tutto il presente che deriva la nostra difficoltà di dare un senso al passato prossimo. La domanda positiva di senso che si manifesta presso gli individui delle società contemporanee (di cui l’ideale democratico è senza dubbio un aspetto essenziale) può spiegare, paradossalmente, i fenomeni talvolta interpretati come segni di una crisi del senso e, per esempio, le delusioni di tutti i delusi della Terra: i delusi del socialismo, i delusi del liberalismo, e ben presto anche i delusi del postcomunismo”.
Ho scelto di riportare questo lungo passo del libro di Augé sulla surmodernità perché forse ci aiuta a capire perché la dilatazione del presente del vivere contemporaneo ha messo in crisi il rapporto con il passato e, in definitiva, il rapporto con la storia.
Chiudo infine con un’ultima immagine della condizione umana contemporanea che si propone come oggetto di studio degli antropologi, ma anche degli storici:
“Un mondo in cui si nasce in clinica e si muore in ospedale, in cui si moltiplicano, con modalità lussuose o inumane, i punti di transito e le occupazioni provvisorie (le catene alberghiere e le occupazioni abusive, i club vacanza e i campi profughi, le bidonville destinate al crollo o a una perennità putrefatta), in cui si sviluppa una fitta rete di mezzi di trasporto che sono anche spazi abitati, in cui grandi magazzini, distributori automatici e carte di credito riannodano i gesti di un commercio «muto», un mondo promesso alla individualità solitaria, al passaggio, al provvisorio e all’effimero propone all’antropologo (ma anche a tutti gli altri) un oggetto nuovo del quale conviene misurare le dimensioni inedite prima di chiedersi di quale sguardo sia passibile”.
Infine il terzo libro che propongo è Agostino Petrillo, La periferia nuova. Disuguaglianza, spazi, città. Petrillo insegna sociologia urbana al Politecnico di Milano e da qualche anno è impegnato ad osservare le trasformazioni urbane, in particolare delle periferie; trasformazioni che si sono accentuate dopo la crisi del 2008 che ha messo fine all’euforia neoliberista. Con il sopraggiungere della crisi o per meglio dire delle crisi, è diventato sempre più chiaro che il modello neoliberista di globalizzazione ha accentuato le disuguaglianze dappertutto, sia nei paesi dove queste erano già intollerabili e tali da non favorire una crescita economica e sociale, sia nei paesi come quelli dell’Europa occidentale (in forme diverse anche nei paesi oltrecortina) che nei favolosi trent’anni del dopoguerra avevano sviluppato un’economia industriale e dei servizi universali al cittadino (welfare) che avevano prodotto migliori condizioni di vita per le classe popolari che ora subiscono un generale impoverimento.
La deindustrializzazione e l’abbandono del modello fordista, l’affermarsi della precarizzazione del lavoro e delle prospettive economiche, l’erosione dei servizi pubblici (istruzione e sanità) a favore di analoghi servizi privatizzati, hanno avuto un enorme impatto sulle periferie, in particolare quelle, enormi, della working class fordista. A questo si aggiunga l’epocale fenomeno migratorio dalle regioni più povere o quelle martoriate da conflitti mai spenti verso i paesi più ricchi nella speranza di trovare pane e pace, iniziato nell’ultimo decennio del ‘900, se non un po’ prima.
Petrillo introduce concetti interessanti quali la periferizzazione del territorio urbano e i fenomeni di gentrificazione (usando un orribile termine mutuato dall’inglese gentrification in mancanza di una valida alternativa linguistica) dei centri urbani. Petrillo avverte che è il concetto tradizionale di periferia ad essere superato, essa non è lo spazio inurbato che non è ancora diventato città di un tempo e nemmeno la periferia di quartieri working class che, pur nei limiti e le contraddizioni che potevano esserci, erano in rapporto, magari conflittuale ma costante, con la città. Si pensi ai movimenti di lotta per ottenere servizi pubblici (trasporti, scuole, distretti sanitari) che portavano gli abitanti dei quartieri periferici nelle piazze delle città. In qualche modo il modello di lotta rivendicativa sperimentato nella fabbrica fordista veniva esportato anche nei luoghi di abitazione, coinvolgendo anche i soggetti che vivevano con gli operai e le operaie (coniugi, figli studenti ecc.). La progressiva deindustrializzazione ha mutato di segno quegli stessi quartieri: da un lato la vecchia classe operaia, pur continuando a viverci, è invecchiata ed è andata in pensione oppure è stata espulsa e vive di sussidi di disoccupazione, i figli continuano a vivere in casa perché faticano a trovare un lavoro stabile ed alternano periodi di lavoro precario ad altri di disoccupazione.
In parte la composizione della popolazione si è modificata con l’arrivo di persone immigrate da altri paesi che prima di ottenere permessi di soggiorno devono vivere con lavori irregolari e sottopagati. Il mutamento delle condizioni economiche degli abitanti e la netta riduzione dei servizi pubblici garantiti peggiorano il vivere dei quartieri popolari, anche di quelli in posizioni relativamente vicine ai centri storici. Le nuove povertà portano spesso alla svendita di immobili per insostenibilità del debito e, nel contempo, il peggioramento di qualità della vita svaluta il valore degli immobili stessi rendendo impossibile per i suoi abitanti abbandonarli. Questo è un fenomeno di periferizzazione e, appunto, colpisce anche aree in posizione relativamente privilegiata la cui svalutazione mette in moto la speculazione fondiaria e l’accaparramento da parte di società immobiliari di immobili che, in un secondo momento, li riqualificano offrendoli ad acquirenti solvibili e modificando l’assetto sociale attraverso la progressiva espulsione dei ceti popolari preesistenti. Questo è un fenomeno di gentrificazione, di sostituzione residenziale da parte di ceti con elevato potere d’acquisto che espellono ceti popolari nelle sole zone appetibili.
Vorrei però proporvi altri due esempi di gentrificazione: li riduco ad un’astrazione per semplificare il ragionamento, ma nella realtà si possono trovare molte situazioni come queste:
Il primo esempio riguarda Montse, una signora settantenne, pensionata, che vive da sola a Barcellona in un palazzo del centro storico in prossimità della spiaggia della Barceloneta. Ha una pensione non molto alta, ma sufficiente per le sue necessità, grazie anche al fatto che il contratto d’affitto dell’appartamento in cui abita è basso. È un contratto senza scadenza sottoscritto molti anni fa e non può essere disdetto a meno che l’affittuario non paghi regolarmente il canone e, in virtù di questo contratto, il suo canone non ha subito gli aumenti iperbolici degli affitti della città. I proprietari le avevano offerto in più occasioni delle somme anche importanti perché liberasse l’appartamento, ma lei ha sempre rifiutato perchè non saprebbe dove andare. Montse vive al terzo piano senza ascensore, finchè le gambe glielo permettono rimarrà a casa sua. Nel ripiano dove vive lei è la sola residente, ci sono altri due appartamenti, ma sono affittati a turisti. Da quando Barcellona è diventata una delle mete turistiche più richieste gli appartamenti sono quasi sempre occupati. A volte ci sono persone gentili, famiglie con ragazzi che salutano, non è come avere dei vicini, ma va bene. Il problema è sorto da quando è diventato di moda venire a Barcellona a fare le feste di addio al celibato e al nubilato. Sempre più spesso nei due appartamenti del pianerottolo arrivano gruppi di ragazzi o ragazze già euforici, già su di giri, tutti vestiti con una maglietta uguale con scritte che ricordano il motivo della loro presenza lì. Questa volta sono in sette, vengono da Bologna, tutti portano la maglietta con scritto “Giorgio cosa stai facendo?”L’appartamento è più grande di quello di Montse, ma sette ragazzi sono molti. Arrivano gridando e ridendo sulle scale, lasciano le valigie e se ne vanno per la città. Rientrano alle quattro del mattino, le voci e le risate sulle scale fanno intuire che hanno brindato. Entrano in casa e, dopo un momento di calma apparente, si sente una musica molto ritmata, sempre più forte e risate. Montse per un po’ resiste ma dopo un’ora non ce la fa più e va a suonare il campanello. Dopo un po’ aprono la porta e lei cerca di spiegare che ormai è mattino e lei ha bisogno di riposare. Le risponde Giorgio che parla un po’ di spagnolo e le dice che si scusa, ma è la sua festa, fra qualche giorno si sposa e ha diritto a far festa; in fin dei conti sono soltanto tre giorni e poi se ne vanno. Montse dice che lo capisce, ma che per lui sono solo tre giorni, ma dopo di lui arriverà Francesca o John o Gilbert per altri tre giorni e per lei non c’è pace.
Il secondo esempio riguarda un borgo sulle colline umbre, un bel borgo medievale, ma ancora vivo. Un bel giorno una coppia inglese vi passa per caso in vacanza. Se ne innamora e l’anno successivo torna e decide di comprare casa, ne trovano una non più abitata e la pagano bene. Col tempo fanno fare dei lavori di recupero e la sistemano molto bene rispettando la costruzione originale. Un bel esempio anche per le altre case. Via via arrivano altri inglesi che si innamorano del luogo e comprano altre case e le ristrutturano con gusto. Il luogo piace proprio a molti, un’agenzia si è specializzata ed ha pubblicizzato il borgo in Gran Bretagna, i prezzi continuano a crescere e anche chi ci viveva decide di vendere, con quei prezzi si compra a valle un appartamento nuovo, moderno e rimane loro anche del denaro per il futuro. Ormai nel borgo è più facile sentir parlare inglese che il dialetto del posto, ma il borgo è vivo solo qualche mese all’anno durante l’estate, quando i nuovi proprietari vengono in vacanza. Così anche il bar trattoria, che prima funzionava tutto l’anno, ora apre solo d’estate e poco più. Negli altri mesi avrebbe poca clientela e il proprietario ne ha aperto un altro a valle dove lavora nei mesi morti, lo stesso ha fatto il pizzicagnolo. Ecco così che anche chi non voleva andarsene alla fine comincia a pensare di vendere, almeno finché pagano bene la casa. Paradossalmente ora il borgo è più bello di prima, ma è una città fantasma per buona parte dell’anno.
Fenomeni come quelli qui descritti, in forma più o meno accentuata, si ripetono in tutti i centri storici delle città o dei luoghi ad alta attrazione turistica. Li potremmo far rientrare nella categoria dei nonluoghi?
Nel primo esempio per Giorgio ed amici sicuramente sì, è vero che loro stanno socializzando, la loro amicizia è alimentata da questa occasione, ma il luogo è indifferente, potrebbero essere lì come in un’altra parte del mondo, avrebbero contrattato con le stesse modalità la locazione dell’appartamento e le persone che vivono nei paraggi sono loro indifferenti, quando non sono addirittura una molestia perché criticano il loro modo di divertirsi. E per Montse? È casa sua, ma l’assenza di vicini stabili con cui intessere relazioni di vicinato non erode in qualche modo il suo mondo? Una situazione altrettanto spuria si crea anche nel borgo umbro nei mesi in cui riprende vita.
Per chiudere torno sulla questione dei Centri Commerciali perché l’argomento non è nuovo per storiAmestre; il nostro socio Claudio Pasqual già nel dicembre 2016 aveva proposto la costituzione di un gruppo di studio all’interno della nostra associazione che analizzasse il fenomeno e lo fece con una importante riflessione che vi riporto:
“la grande distribuzione si è proposta e si propone come volano e catalizzatore di sviluppo. Da un lato essa è fattore di agglutinazione in area suburbana e periurbana di nuovi insediamenti di servizi e residenzialità, dall’altro è motore di profonde modificazioni dei comportamenti sociali e delle forme e modalità di fruizione collettiva degli spazi urbani: lo scivolamento dalla città storica alla cintura periferica dell’agglomerato urbano del baricentro della vita cittadina rispetto ad ambiti di primaria importanza, quali consumi e tempo libero, cui aggiungere lo sbarco recente di altre funzioni, direzionali-amministrative, sanitarie, culturali, turistico-ricettive, persino di residenzialità privata; con un effetto di risucchio verso questi poli dei flussi di persone e del traffico veicolare, della congestione della rete stradale nelle aree, dell’impoverimento del tessuto commerciale e della perdita di tono della vita sociale e culturale del centro cittadino. E i cambiamenti in corso hanno agito a pensarci bene a livelli più profondi ancora, antropologici e sociologici. Si è considerevolmente accresciuta a scapito di altre sfere dell’esperienza umana la dimensione dell’individuo consumatore. Su un altro versante, la fortunata categoria di “non luoghi” (Augé), se si mantiene attuale per altre realtà – stazioni, aeroporti, aree autostradali di servizio -, non appare più adatta a descrivere i centri commerciali. Questi spazi sembrano diventati luoghi di socialità: ci si va anche, spesso soltanto, per sorseggiare un caffè e far quattro chiacchiere ai tavoli del bar con amici e parenti, per il rito dello spritz, anche solamente per passeggiare e guardar le vetrine come nelle strade e piazze della città reale.
Dunque capire la recente evoluzione della nostra città significa anche indagare le più recenti espansioni urbane a vocazione commerciale – direzionale nelle loro ragioni, formazione e sviluppi: gli attori privati e pubblici coinvolti (amministrazioni locali e regionali, soggetti imprenditoriali, organizzazioni sociali), gli interessi in gioco, le dinamiche politiche ed economico-sociali”.
Vorrei aggiungere un altro elemento di riflessione leggendovi il testo di un cartello apposto in vari punti dell’area antistante il Centro Commerciale Le Piramidi, uno dei primi Centri Commerciali aperti in Italia: “È assolutamente VIETATO qualsiasi tipo di volantinaggio all’interno dei parcheggi del centro acquisti Le Piramidi”, ovviamente se non è permesso fuori figuriamoci dentro. È proprietà privata e lì si va per comprare non per fare politica o per diffondere un pensiero o fare delle iniziative. È questo il punto più importante che distingue un Centro Commerciale da una piazza o da un mercato in piazza, la privatizzazione di uno spazio pubblico. Petrillo afferma a questo proposito che: “Lo spazio pubblico è stato frequentemente immolato ai privati e trasformato in un luogo di consumo che del pubblico ha mantenuto solo le parvenze. […] La privatizzazione dello spazio pubblico comporta quindi una riduzione delle funzioni da esso svolte, dato che la proprietà privata si propone prima di tutto di realizzare profitti, economizzare, commercializzare, non ha certo a cuore le funzioni sociali generali, come ad esempio la funzione di socializzazione svolta dallo spazio pubblico o la funzione culturale per non parlare di quella politica. Per questo insieme di motivi gli spazi pubblici privatizzati sono inumani, sterilizzati, privi di possibilità di contatto, ne vengono banditi mendicanti e senza tetto, finiscono per essere sorvegliati e presidiati da guardiani e polizie private”.
Mi viene da pensare quali sono le differenze fra una persona che andava in città per fare acquisti e una che ora va al Centro Commerciale. Apparentemente nessuna, tuttavia se andava al mercato in città sapeva che poteva incontrare persone che erano lì per comprare come lui/lei, ma potevano essere lì per fare quattro chiacchere, oppure perché attratti da una manifestazione convocata (non necessariamente un corteo, potrebbe essere un concerto o una processione religiosa). Insomma correva il rischio di incrociare altre persone che erano lì con scopi diversi dai suoi che l’avrebbero infastidito o affascinato, ma la cui presenza veniva avvertiva come legittima. Se invece si sposta in un Centro Commerciale (e lo fa quasi esclusivamente con un mezzo privato, è difficile andarci con mezzi pubblici) va lì con l’idea di andare a fare acquisti o, se non ha soldi, di guardare i negozi, magari per pianificare acquisti futuri, ma non si aspetta e non vuole incrociare persone che stanno facendo cose diverse. Intendo dire che troverebbe fuori luogo un comportamento diverso dallo shopping o dal guardare le vetrine. Non tollererebbe persone che lo/la vogliono distrarre dal suo obiettivo. Si tratta di una “gigantesca impresa di privatizzazione del tempo libero e della dimensione dell’incontro materializzatasi nelle cattedrali dei consumi e nei centri commerciali”. Non è escluso perciò che nei Centri Commerciali avvengano incontri e si crei una certa forma di socialità, tuttavia essa dovrà sottostare ai dettati della proprietà.
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